Sul FOGLIO di oggi, 30/03/2013, a pag.IV dell'inserto, con il titolo " Il nuovo Spinoza", Giulio meotti traccia un ritratto del filosofo Yeshayahu Leibowitz. Il titolo ci pare alquanto fuori luogo.
Yeshayahu Leibowitz
Yeshayahu Leibowitz non avrebbe mai immaginato una celebrazione postuma, visto che da vivo gli davano del “traditore” e del “Luftmensch”, l’ebreo dell’aria, l’ebreo della diaspora. Nel 1993, un anno prima che morisse a novant’anni, quando le autorità israeliane decisero di assegnargli l’Israel Prize, il massimo riconoscimento civile conferito dallo stato ebraico, l’allora premier laburista Yitzhak Rabin intervenne indignato contro la scelta caduta sul filosofo, annunciandone il boicottaggio. Leibowitz, alla fine, fu costretto a rinunciare al prestigioso premio per non creare imbarazzi al primo ministro, che chiese persino di modificare la procedura per l’assegnazione di quel riconoscimento. Poi venne fuori che il premio a Leibowitz lo aveva stabilito anche un ex generale che era stato capo dell’intelligence militare del primo ministro. Eppure sarebbero stati proprio gli strali di Leibowitz a ispirare la politica del premier laburista sulla strada del negoziato con gli arabi. Isaiah Berlin, che sullo stato ebraico aveva idee molto differenti da quelle del “genio di Riga”, definì Leibowitz la “coscienza di Israele”. Per i centodieci anni dalla nascita del più noto pensatore israeliano, il grande eretico, il papa laico, il più terribile allievo della sinagoga, in Israele sta uscendo un profluvio di libri, saggi e documentari (come quello di Rinat Klein e Uri Rosenwaks, “Leibowitz: Faith Country and Man”). Insopportabile per la maggioranza degli israeliani, Leibowitz era però rispettato da tutti per la sua autorevolezza morale, la sua sterminata cultura, la sua coerenza algida ed estremista. Un documentario francese su di lui si intitola “Nul n’est prophète en son pays”, nessuno è profeta in patria. Leibowitz infatti è stato al tempo stesso un inquisitore feroce e un padre amorevole del popolo israeliano. Una contraddizione vivente. Il filosofo ha avuto una posizione strategica nella costruzione della coscienza nazionale israeliana come massima autorità nella filosofia e nella religione ebraica, come curatore dell’Enciclopedia ebraica e come docente di Biochimica e Neurofisiologia. Era considerato la massima autorità sul filosofo medievale Maimonide, e la radio israeliana, nel dare la notizia della sua morte, lo definì “uno dei più grandi ebrei del nostro tempo”. Ma gli israeliani non gli hanno mai perdonato l’aver definito “giudeo nazista” l’esercito con la stella di David, per via dell’occupazione dei territori della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Lo hanno chiamato “novello Spinoza”, perché il suo più alto messaggio religioso diceva che scopo dell’ebraismo è la necessità di servire Dio soltanto per la salvezza della propria anima e non per obiettivi universali come la perfezione umana o la redenzione nazionale. Leibowitz, come Spinoza nella Amsterdam sefardita prima di lui, bollò l’attaccamento israeliano al Muro occidentale, quanto resta dell’antico Tempio ebraico di Salomone nel cuore di Gerusalemme, come una battaglia per una “discoteca pagana”. A suo avviso sarebbe stato molto meglio restituire questi luoghi agli arabi. Allo stesso tempo Leibowitz era inviso ai cristiani, tanto che definì “un rifiuto umano” Mordechai Vanunu, la spia che ha rivelato al mondo l’atomica israeliana, non perché avesse rivelato segreti sul programma nucleare, ma perché si era convertito alla religione cristiana. Leibowitz non era un laicista. Da duro ebreo ortodosso, attaccava quegli “ebrei cristianizzanti” che cedono proprio sul terreno dell’osservanza halakica. Per lui anche il giudaismo riformato rientrava in questa categoria, e come tale è una “apostasia”. Nato a Riga nel 1903, Leibowitz era in battaglia perenne contro “l’idolatria dello stato” e a favore della libertà di pensiero, sempre, a ogni costo, sino a essere messo al bando, isolato dall’Israele contemporaneo. E’ stato il critico più feroce di David Ben-Gurion, di cui era amico e avversario, perché secondo lui il fondatore d’Israele sognava una religione instrumentum regni, mentre la vera dimensione della religione, nell’ebraismo, è quella dell’estraneità assoluta al potere secolare, del profeta come critico radicale, anarchico, quasi, della politica, dello stato, del regno. Leibowitz è all’origine di mezzo secolo di critica ebraica a Israele.In una lettera a Isaiah Berlin, negò di essere un pacifista: “Non sono un liberal, un tolstoiano, un pacifista. Io credo nelle guerre se sono necessarie. Ma non voglio vivere in uno stato che governa gli arabi. Questo è imperialismo odioso. Voglio uno stato degli ebrei, governato da ebrei, per gli ebrei”. Altissimo, grifagno, pallido, Leibowitz aveva una cultura sterminata. “Rinascimentale” è l’aggettivo più usato per lui, per via della sua conoscenza, per aver diretto il dipartimento di Biochimica all’Università di Gerusalemme e per essere stato un filosofo della scienza tra i più prestigiosi del mondo. “Leibowitz il saggio”, lo chiamavano i suoi studenti, mentre altri dicevano che era “il rabbino della sinistra israeliana”. Poche settimane dopo la Guerra dei sei giorni, nel giugno 1967, fu il primo intellettuale a lanciare il grido d’allarme. “State attenti, o si lasciano quelle terre con il loro milione di abitanti palestinesi o il nostro stato sarà inevitabilmente corrotto, tradiremo tutti i principi guida del sionismo e diventeremo una dittatura di polizia”, disse il vecchio saggio agli israeliani ebbri di vittoria. Paria e mentore d’Israele, Leibowitz non aveva mancato di sollevare polemiche quando invitò i giovani del suo paese a non prestare servizio nell’esercito. “Mi riempie di disgusto”, commentò prontamente l’allora primo ministro Yitzhak Shamir. Il grande studioso di Maimonide non ha mai risparmiato critiche all’esercito e in almeno due occasioni, durante l’invasione del Libano nel 1982 e, cinque anni dopo, con lo scoppio dell’Intifada palestinese nei territori occupati, invita i soldati a disobbedire agli ordini. I primi ministri Menachem Begin e Shamir lo hanno messo al bando quando il professore disse che la loro ideologia era “simil nazista”. Negli anni Cinquanta, Leibowitz si schierò contro l’adozione dell’arma atomica da parte d’Israele. Usava sempre le Scritture contro l’establishment militare: “Negli ultimi due anni, l’esercito d’Israele, equipaggiato con le più moderne armi americane, ha eroicamente combattuto e ucciso centocinquanta bambini arabi, dai tre mesi ai quattordici anni. Nessuna spiegazione, nessuna scappatoia, nessun sotterfugio potranno assolvere lo stato d’Israele, dalla maledizione del profeta: ‘Vi coprirò di perenne disgrazia e di perenne vergogna, che non sarà mai dimenticata (Geremia 23, 40)’”. A Gerusalemme Leibowitz ha vissuto con la moglie Greta, un’ebrea berlinese intellettuale che diventerà una delle ricercatrici più importanti alla facoltà di Matematica dell’Università ebraica. Sforneranno una nidiata di intellettuali: Elia Leibowitz è docente di Astrofisica, Mira di Fisica, Yossi di Chimica e Yiska è avvocato. Il sionismo di Leibowitz era di una specie rara: nessun romanticismo sulla creazione di un “nuovo ebreo”, né alcun valore di redenzione legato alla santità della terra. Piuttosto un sionismo pragmatico legato al fallimento dell’assimilazione in Europa. Ma pur sempre legato ai valori dell’ebraismo neoilluminista. Un giorno propose persino di distruggere le tombe ebraiche che sorgono in Cisgiordania, a Hebron, Nablus e Betlemme: “Quando i wahabiti conquistarono la Mecca, la prima cosa che fecero fu distruggere la tomba di Maometto, senza lasciare traccia. Trasformare una tomba in un luogo santo era una desecrazione degli insegnamenti di Maometto. Lo stesso vale per il giudaismo”. A differenza della sinistra israeliana, Leibowitz è sempre rimasto un ebreo con la kippah. Gershom Scholem gli diceva: “Tu credi alla Legge, non a Dio”. E il filosofo Ernst Simon ripeteva: “Leibowitz osserva i comandamenti per irritare Dio”. Ogni mattina si alzava alle sei per andare in sinagoga nel suo quartiere di Rehavia a Gerusalemme, quello in cui visse anche Hans Jonas, ma rimase sempre legato agli studi neokantiani della scuola di Berlino. Il rabbinato lo scomunicò quando disse di Israele che “è l’unico stato al mondo dove i suoi cittadini non possono sedere alla stessa tavola. Le regole dietetiche religiose vietano a un ortodosso di pranzare con un ebreo laico. Se continua così ci distruggeremo da soli”. Propugnava la ferrea divisione tra ebraismo e stato ebraico. Voleva che Israele fosse lo “stato degli ebrei” e non lo “stato ebraico”. Non meno tenero fu con il giudice della Corte suprema Moshe Landau che aveva legittimato l’uso della pressione fisica durante gli interrogatori. Leibowitz lo chiamò “mostro”. Alla fine dei suoi giorni il grande studioso ebbe una visione fosca del futuro d’Israele: “Siamo condannati a crearci in questo nostro paese un’esistenza senza pace e senza sicurezza, come il popolo ebraico fece nel corso di tutta la sua vita millenaria”. La furia iconoclastica di Leibowitz è all’origine di tutta la critica ebraica a Israele. Negli ultimi anni, nell’anglosfera, la critica più incessante a Israele è venuta da intellettuali ebrei. Ogni giorno, ebrei famosi – scrittori, artisti, accademici – descrivono Israele come un’entità “razzista”, “depravata” e “disumana”, che deve essere smantellata. Molti di loro hanno assunto ruoli chiave nella campagna di dismissione dello stato ebraico. George Steiner, proclamato “il critico letterario più importante del mondo”, ha più volte messo in dubbio la necessità dell’esistenza di Israele. Eric Hobsbawm, uno degli storici più noti del XX secolo, ha sostenuto la seconda Intifada, approvando “la causa della liberazione”. Marek Edelman, uno dei capi della rivolta del ghetto di Varsavia, ha scritto lettere ai “partigiani palestinesi” durante l’Intifada. L’iniziativa di un boicottaggio anti israeliano a Londra è stata decisa da Stephen e Hilary Rose, due rinomati accademici ebrei. Il linguista Noam Chomsky, “il padrino intellettuale” della campagna anti israeliana negli Stati Uniti, proclama apertamente l’abolizione dello stato ebraico. La filosofa ebrea Judith Butler è alla guida del disinvestimento economico da Israele. Decisiva l’influenza di Leibowitz sullo storico Tony Judt, scomparso due anni fa dopo aver lottato stoicamente contro il terribile morbo di Lou Gehrig. Il guru della sinistra intellettuale newyorchese, l’editorialista radical di Nation e New York Review of Books, nel 2003 scrisse un lungo saggio dal titolo eloquente: “Israel: The Alternative”. Proponeva di smantellare lo stato ebraico per farne uno stato multietnico, senza identità, in cui ebrei e arabi avrebbero vissuto senza più conflitti. Una sorta di utopia balcanica. Judt ha paragonato Israele alla Francia in Algeria ai tempi di De Gaulle: prima o poi, scrisse, dovrà venirne via, o trattarla alla pari. E’ l’affaire Judt. Incontri cancellati con l’accusa di antisemitismo stampata al petto del grande storico. Conferenze alle ambasciate revocate. Picchetti indetti di fronte alla sua università. In Israele Judt non era un outsider. Sperimenta nel kibbutz il “muscolare giudaismo” fatto di salute, esercizio fisico, produttività, autosufficienza, fiero separatismo. “L’ho adorato. Otto ore di lavoro faticoso intellettualmente poco impegnativo in piantagioni di banane sulle rive del mar di Galilea, intervallati da canti, passeggiate, lunghe discussioni dottrinali e la suggestione sempre presente del sesso senza sensi di colpa: in quei giorni il kibbutz con la sua penombra conservava ancora un pizzico di innocente ‘libero amore’ dei culti di inizio Ventesimo secolo”. Dopo questa romantica narrazione del proprio noviziato, Judt si scatena contro Israele, accusandolo del “peggior tipo di solipsismo etnico” e di “persuasione dogmatica”. “Israele si sentiva come una prigione e il kibbutz come una cella sovraffollata”, scrive nel libro postumo. Ma è soprattutto su Avraham Burg che Leibowitz ha lasciato il segno più forte. La madre apparteneva a una vecchia famiglia sionista di Hebron ed era sopravvissuta ai massacri del 1929 grazie alla protezione di un vicino arabo. Il padre era un ebreo tedesco, Yossel Burg, leader del sionismo religioso, professore universitario, ministro di gabinetto con David Ben-Gurion, poi ministro degli Interni con Menachem Begin durante la prima guerra del Libano e infine direttore di musei. Come Leibowitz, Burg è un ebreo osservante. Già presidente della Knesset (il Parlamento israeliano) dal 1999 al 2003, nel 2008 Burg compie apostasia e denuncia il sionismo. Quando Leibowitz morì, il presidente Ezer Weizman lo salutò come “una delle più grandi figure della vita del popolo ebraico” e “la coscienza spirituale d’Israele”. Eppure a oggi anche solo voler nominare una strada di Haifa e Gerusalemme a Yeshayahu Leibowitz genera un coro di indignazione. Della lunga parabola di questo scandaloso e geniale intellettuale israeliano resta una lezione, quella secondo cui “i popoli non si uccidono, bensì si suicidano”. Ma non vale, almeno per ora, nel caso di Israele. Se la diaspora sta per essere mangiata dall’assimilazione, Israele, nonostante l’atomica iraniana, nonostante la sollevazione islamista che ne lambisce i confini, nonostante la ferita sempre aperta della presenza nei Territori, contiene un elemento di grande speranza. Israele sarà pure una fenice risorta dalle ceneri con artigli d’acciaio, ma dopo Auschwitz, Sion è stata ricostruita. Gli ebrei ci sono. Ieri in Israele hanno superato la simbolica cifra dei sei milioni.
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