Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/03/2013, a pag. 40, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Qualche indizio di antisemitismo. Un'ombra da Tripoli a Parigi ".


Bernard-Henri Lévy
A ll'inizio, mi è venuto un colpo. Sul giornale on line Rue 89 mi cade sotto gli occhi un articolo intitolato: «Bernard-Henri Lévy, l'ebreo, non farà il viaggio a Tripoli con Sarkozy». Ti dici che non è possibile, che stai sognando, che non ti hanno mai chiamato, con o senza virgolette, «l'ebreo». Scrivi al direttore. Gli dici che il suo articolo è una balla (il viaggio non era previsto) e che il titolo, soprattutto, è indegno (o degno, più esattamente, di una moderna versione della vecchia rivista antisemita Je suis partout). Il direttore si scusa. Cambia il titolo, che diventa: «Bhl non andrà a Tripoli con Sarkozy, perché "è ebreo"». Ma mantiene la sua informazione fondata sulle stesse asserzioni vaghe, non verificate, non accertate. Intanto, ti accorgi che il primo titolo, il più offensivo, quello che fa di te «l'ebreo», che è rimasto per lunghe ore on line, non ha provocato alcuna reazione, alcuna protesta, alcun segno di stupore o di indignazione.
Allora comincia per te, dentro di te, l'esame, la prova di verità: sei diventato, sì o no, ebreo o no, indesiderabile in quel Paese che ami e alla cui liberazione hai così ardentemente partecipato? In fondo, sai bene che non è vero. Hai un visto recente per Tripoli, rilasciato, secondo le regole, dalle autorità consolari libiche. Qualche giorno prima, hai avuto un piacevole incontro, durante la sua visita ufficiale a Parigi, con Ali Zeidan, il tuo amico, colui che nel 2011 ti ha accompagnato in quasi tutti i tuoi viaggi nella Libia in fiamme, e che ormai è Primo ministro.
Ti torna in mente con quanta autorevolezza Ali Zeidan richiamò all'ordine, il giorno della propria investitura, l'islamista che, in pieno Parlamento, si preoccupava dei rapporti del nuovo Premier con un «sionista»: quell'uomo è un mio amico, rispose in sostanza il Primo ministro; senza di lui e senza uomini come lui, né voi né io ci troveremmo qui, oggi, a dibattere, come stiamo facendo, in questa sede democratica.
Hai altri amici, in Libia, molti altri amici, politici e militari, comandanti o umili combattenti, che hai ripreso per il film Il giuramento di Tobruk, mentre immaginavano, con te, le svolte strategiche della guerra: riconoscenza verso la Francia... apertura di un secondo fronte sulle montagne berbere del Jebel Nefusa... di un terzo fronte a Misurata... senza parlare degli acquisti di armi in Turchia, del viaggio a Dakar che permise di infrangere lo scudo africano di Gheddafi, dei contatti con il Dipartimento di Stato americano...
E non puoi nemmeno dirti che l'ingratitudine è il vizio dei grandi popoli e che quegli uomini potrebbero benissimo, dopotutto, essersi serviti di te finché eri loro utile: infatti, non erano ancora lì, accanto a te e alla tua équipe, quando il film, il loro film, di cui erano i personaggi e gli eroi, fu presentato in selezione ufficiale al Festival di Cannes? Il loro arrivo, quel giorno... La rievocazione, attraverso la loro voce, durante una conferenza stampa memorabile, dell'avventura straordinaria e fraterna condotta, senza distinzione di origini né, ancor meno, di confessioni, da libici e francesi, uniti dallo stesso amore per la libertà... Poi, la sobria grandezza delle loro parole quando giunse il momento di passare la fiaccola ai combattenti siriani, anch'essi invitati dal direttore del Festival, Thierry Frémaux...
Da un altro lato, però, ti tornano in mente dettagli inquietanti, più recenti. Il film, appunto: ora che ci pensi, ti rendi conto che ancora non è stato diffuso a Tripoli. E il suo cartellone, così commovente, dove tutti, combattenti di allora e responsabili della Libia di oggi, sono in raccoglimento, all'ombra della croce di Lorena, sulle tombe dei soldati francesi del piccolo cimitero di Tobruk: non gira voce che è rimasto solo una giornata sul muro della strada di Bengasi dove era stato affisso?
Non hai più notizie di Mustafa al-Sagizli, principe degli Shabab della Cirenaica, con cui condividi — lo sai perché lo hai filmato — lo stesso desiderio di scongiurare lo spettro orrendo della guerra fra civiltà. Né di Abdelhakim al-Assadi, l'islamista duro, radicale che, sempre nel film, scoppia a ridere quando gli dici che sei ebreo: «Certo che lo sappiamo! L'antisemita Gheddafi ce lo ripete di continuo, sui canali televisivi ufficiali».
È possibile, allora, che l'informazione del sito francese contenga la sua parte di verità? Ci sarebbero davvero, nel Comune di Tripoli, responsabili abbastanza irresponsabili da dire che la visita di un «ebreo» potrebbe, nel clima odierno, provocare tensioni, disordini, magari il risveglio di tale o tale altra milizia?
L'idea ti deprime. Ti riempie di tristezza, di collera. E pensare che così va la guerra fra i due Islam di cui tanto spesso hai parlato e di cui saresti divenuto, tuo malgrado, uno strumento fra tanti altri, non ti consola per niente, ma ancora di più ti rattrista. Al massimo, ti senti rafforzato nella volontà di riprendere, più che mai, la lotta: qui e laggiù, con i tuoi veri amici libici.
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