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La Repubblica Rassegna Stampa
27.03.2013 Vivere a Tel Aviv e avere la cittadinanza israeliana, ma disprezzare Israele
intervista di Susanna Nirenstein a Sayed Kashua

Testata: La Repubblica
Data: 27 marzo 2013
Pagina: 51
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Io, arabo d'Israele, comico per la pace»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/03/2013, a pag. 51, l'intervista di Susanna Nirenstein a Sayed Kashua dal titolo " Io, arabo d'Israele, comico per la pace".


Susanna Nirenstein, Sayed Kashua

" Non ho altro da raccontare", dice Sayed Kashua alla fine dell'intervista di Susanna Nirenstein. E invece qualcos'altro l'avrebbe da raccontare, per esempio quando venne invitato dal Salone del Libro di Torino nel 2008, l'anno in cui Israele era l'ospite d'onore e insieme festeggiava i 60 anni dello Stato. Sayed Kashua era stato invitato con particolare attenzione, in quanto scrittore arabo-israeliano, uno dei pochi che scrivono in ebraico, in più giornalista di chiara fama su Haaretz, con una rubrica fissa settimanale. Un invito significativo, per mettere in evidenza la presenza sulla scena letteraria israeliana di un autore arabo. Kashua ritenne però di respingere l'invito, motivandolo cosi': " Non partecipo a una manifestazione che festeggia lo Stato che opprime il mio popolo". Un atteggiamento forse comprensibile se Kashua fosse un militante di qualche gruppo estremista, più avvezzo a maneggiare pietre o altri corpi contundenti più fragorosi invece dei tasti del PC. Kashua, poi, non vive fra quello che definisce "il mio popolo", ma nella piacevole e opulenta Tel Aviv, la città a pressochè totale popolazione ebraica. Una vita che deve non dispiacergli, così come deve essere soddisfatto di scrivere libri in ebraico tradotti in tutto il mondo e venduti anche in Israele, proprio quel paese che lui si rifiuta di festeggiare perchè "opprime il suo popolo".
Ecco l'intervista:

Al Sayed Kashua ha un’anima maledettamente doppia. Esce da ogni schema. Da un lato è un arabo con cittadinanza israeliana e senza esitazioni ritiene quella palestinese una minoranza oppressa, dall’altro scrive scandalosamente in ebraico sia i suoi romanzi che una rubrica sul quotidiano Ha’aretz, mentre sulla tv israeliana va in onda la sua seguitissima sit-com Avodà Aravi (Lavoro da arabi) che ironizza sia sulle diffidenze degli israeliani sia su tutto quel che gli arabi israeliani sono e pensano, dal fatto di sentirsi cittadini di seconda classe alle loro aspirazioni ad integrarsi frustrate anche da un’indomita arretratezza e da un conflitto permanente dentro di sé. Come in un episodio del serial dove alla fine di una serata di bevute, si ferma a fare pipì senza accorgersi, nel buio, di stare pisciando su un monumento israeliano con la polizia a due passi: apriti cielo, improvvisamente, sui giornali lui, un arabo moderatissimo e pacifista, diventa il nemico numero uno degli ebrei, ma anche l’eroe numero uno dei palestinesi estremisti, ovvero tutto ciò che non vuol essere! Oppure quell’altra puntata, in cui il protagonista entra nel Grande Fratello e gli organizzatori gli chiedono come prova del fuoco di fingere di essere un paracadutista israeliano: lui si immedesima così tanto, da non volere più abbandonare la finzione e far scoppiare un gran casino. Ecco, Sayed è così: si e ti prende in giro e così facendo rivela un mondo. In un romanzo precedente, E fu mattina, il protagonista costretto a tornare da Tel Aviv al suo paese d’origine, viene raggiunto e terrorizzato dalla decisione che il villaggio passi dall’amministrazione israeliana a quella palestinese. Nel primo invece Arabi danzanti, il personaggio n.1 è riuscito a sembrare un “israeliano calzato e vestito”, ma il desiderio di assimilazione si incaglia disastrosamente in un amore rifiutato. Ora, con Due in uno (Neri Pozza, trad. di Elena Loewenthal) Kashua, pur restando nell’ironia e nella metafora, esce dalla macchietta ed entra nella letteratura, anche se il primo filone del racconto — quello di un avvocato palestinese che insegue la modernità attraverso mille status symbol della ricchezza “occidentale” (dalla Mercedes al sushi, ai classici della narrativa) ma incappa, per via della gelosia per sua moglie, in tutti gli stereotipi delle sue radici — ha un risvolto apertamente comico. Nel plot però le giravolte dell’avvocato si intrecciano con quelle di un giovane assistente sociale in una drammatica crisi d’identità che finisce per tagliare ogni legame con l’infanzia palestinese e sostituirsi, con successo, a un ragazzo ebreo israeliano che muore.
Sayed appare su Skype da Londra. Signor Kashua, perché ha scelto l’ebraico anche se è un palestinese?
«Perché è il solo linguaggio che posso usare per esprimermi, visto che i miei mi mandarono a 15 anni ad una scuola ebraica. È complicato lo so, perché l’arabo è parte della mia identità, e l’ebraico è la lingua del sionismo. Ma quando mi metto davanti al mio computer e rifletto sui miei personaggi, non penso al contesto nazionale, e non ho nessuna altra lingua».
In tutti i suoi romanzi i protagonisti arabi vogliono assomigliare agli israeliani. Cosa le piace e cosa no della sua cultura di origine da un lato, di quella israeliana dall’altro?
«È complicato parlare di una cultura palestinese in Israele, non so cosa sia. È la cultura patriarcale del vivere nei villaggi, non avere un’esistenza moderna, cittadina e proteggere così la nostra identità? Non credo sia una nostra scelta. E credo anche che alcuni miei protagonisti non cerchino di essere simili agli israeliani, ma di integrarsi nella società, mentre altri vogliono solo vivere una realtà urbana e lasciare i loro paesini depressi ».
Non è solo questo: lei è attratto dalla cultura occidentale.
«Se vuol dire libertà di espressione e democrazia, sì, è vero. Spero ci sia questo alla fine delle rivoluzioni arabe, e seppure sono deluso dai risultati immediati in Egitto (per non parlare del sangue in Siria) vedo che si è fatta strada una capacità, un coraggio di critica, che un tempo era impensabile».
Lei ha molto più successo tra gli israeliani che tra i palestinesi che anzi la guardano poco e con sospetto. Come se lo spiega?
«Un tempo era così, i palestinesi non capivano il mio linguaggio ironico, diverso, e io ero triste e frustratissimo. Senza il sostegno della mia famiglia avrei smesso di scrivere. Ma ora stanno traducendo i miei libri in arabo, e inizio ad andare nei villaggi a tenere letture ».
E del grande successo con gli israeliani che dice?
«Ne sono felice anche se non capisco perché gli piaccio e poi vanno a votare Netanyahu. Non so se mi vedono proprio come un loro concittadino, un loro pari, io però sono un israeliano, è il paese in cui sono nato e spero che i miei figli abbiano lo stesso futuro dei figli del mio vicino ebreo Jonathan».
Amir, il giovane palestinese del suo romanzo, si sostituisce a un ebreo israeliano.
«Perché non vuole più essere una minoranza. E così si appropria anche della sua musica, delle sue letture. Diventa un artista. Mi sono chiesto se è questo il significato di identità».
Sembra che la sostituzione di Amir funzioni.
«Mah, non so mica come andrà a finire Amir, e se sarà davvero contento». Come fa a sopportare tutti i suoi conflitti, e quelli che la circondano, fuori e persino in famiglia, dove i suoi figli parlano arabo con voi ed ebraico tra di loro? «Bevo. E scrivo».
Quali sono stati i suoi romanzi di formazione?
«Nel villaggio di Tira non c’era una vera biblioteca, e a casa mio padre aveva solo libri di Lenin, Trockij e Marx. A 15 anni, a scuola mi dettero da leggere Emile Ajar, in ebraico. Lo mollai lì. Ma subito dopo fu la volta del Giovane Holden, sempre in ebraico, e se volevo restare in quell’istituto dovevo leggerlo. Lo iniziai e mi cambiò la vita, e anche l’idea che avevo della letteratura: non sapevo si potesse imprecare così, esprimere quei dubbi, descrivere un ragazzo che non trovava se stesso in quel modo. E capii che potevo leggere e ne volevo ancora. Sempre di più. Poi fu la volta degli autori israeliani, Agnon, Oz, Yehoshua..., ma mi resi conto che sapevo anche altro, di mio nonno ucciso nella guerra del ’48, di mio padre in galera per due anni per attività politica. Le storie erano molte insomma, e io volevo scrivere, la mia, la mia propria storia. Non parlo a nome di nessuno e non ho altro da raccontare».

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