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Ugo Volli
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Il pensiero di una festa 26/03/2013

Il pensiero di una festa
commento di Ugo Volli

Mazot, le azzime per il Seder di Pesah

Cari amici,

da oggi (in realtà da ieri sera, perché le giornate ebraiche iniziano tramonto, non a mezzanotte né all'alba) per otto giorni gli ebrei festeggiano la festa di Pèsah: fra tutte le ricorrenze ebraiche, quella più amata, che meglio esprime l'anima del suo popolo, fin dal nome “Pèsah” infatti viene dal verbo ebraico  “pasàh”, che significa “andare oltre”, mentre “ebreo”, ivrì, secondo l'etimologia tradizionale deriva da un verbo che ha significato molto simile: avàr”, passare, attraversare. Chi passa oltre nel Pèsah è l'angelo della morte, che nella narrazione biblica, durante lo sterminio dei primogeniti, che è la decima “piaga” inferta da Dio al Faraone, avrebbe saltato le case degli ebrei. Questi, a loro volta, se ne andarono via subito dopo dall'Egitto dove erano tenuti schiavi. Ivrì, secondo la spiegazione della tradizione, si riferisce al fatto che Abramo, il primo chiamato col nome di ebreo, veniva dall'altra parte dell'Eufrate rispetto a Israele. Era dunque un nomade, uno straniero, un uomo di passaggio - anche se la sua meta era la stessa che avrebbero cercato di raggiungere i suoi discendenti: la “terra del latte e del miele” che già gli esuli dal'Egitto chiamavano terra di Israele (cioè di Giacobbe, il nipote di Abramo).

Babilonia, da dove era fuggito Abramo, e l'Egitto, da dove fuggirono i suoi pronipoti, erano le superpotenze dell'epoca, dominatrici di molti popoli. Gli ebrei si definiscono come coloro che abbandonano questi imperi, preferendo l'azzardo di una vita nomade nel deserto o nella steppa; sfuggono al dominio personale di re e faraoni per sottomettersi a una legge che appare loro direttamente comandata dal Cielo. Esuli, ribelli. Pesah per questa ragione è definita nei testi “il tempo della nostra libertà”: la festa del rifiuto di sottomettersi a popoli e poteri stranieri, dell'autonomia del popolo, della sua decisione a sottostare alla legge che apprendono durante la lunga peregrinazione nel deserto, in attesa di poter arrivare sulla loro terra. Questi caratteri, collocati dalla narrazione biblica tremilacinquecento anni fa, hanno caratterizzato tutta la storia del popolo ebraico e in realtà ancora definiscono il suo carattere.

Consapevolezza di essere un popolo anche nell'erranza, fedeltà alla Legge, fedeltà alla terra promessa (o donata, come alcuni preferiscono tradurre), rifiuto di sottomettersi, di convertirsi, di accettare la dispersione e i costumi altrui. Questo è Pèsah e questo è il contrassegno dell'ebraismo. In tale percorso di liberazione, Israele fa esperienza del divino come una guida e un liberatore, come un pedagogo e un legislatore. Non si tratta di fede, nel senso di credere a un dogma, ma di fiducia e fedeltà,  di esperienza e di incontro, in un certo senso della scoperta della propria intima natura.

E' un'esperienza che la festa  ripropone ogni anno. Non si tratta semplicemente, per chi vi partecipa, di festeggiare l'uscita dall'Egitto, ma in un certo senso di parteciparvi, di condividerla, di farla propria misurando su di essa la situazione presente. Perché “in ogni generazione”, come scrissero i compilatori della storia, la “Haggadah” che si legge nelle cene rituali (seder) che segnano le prime due sere della festa, l'oppressione si ripete e con esso il bisogno del Pèsah, del suo superamento.

Certamente dal punto di vista dello storico moderno, la narrazione di Pèsah non è storia ma memoria; non si trova traccia negli annali egiziani delle piaghe e dell'esodo, non vi sono riscontri archeologici della peregrinazione quarantennale di un popolo che viene descritto come numeroso a centinaia di migliaia, se non a milioni di persone. Ma questo non è molto importante, perché il senso della festa è quello di insegnare un percorso, di ricordarne i pericoli, di celebrare il patto che ne origina, di far rivivere il momento fondativo del popolo.

 In un celebre libro (“Esodo e rivoluzione” tradotto in italiano da Feltrinelli) Michael Walzer mostra come la storia dell'uscita dell'Egitto sia servita da modello per l'idea di rivoluzione in tutta la storia dell'Occidente. Ma altri studiosi come Antony D. Smith e Ian Hassmann hanno mostrato più di recente che da questo racconto origina anche l'archetipo del concetto europeo di nazione. E il Pèsah di liberazione, il passaggio dalla schiavitù alla libertà attraverso un percorso difficile e doloroso è certamente servito anche di modello per la Pasqua cristiana, che parla di un passaggio dalla morte alla vita, definita com'è dalla fede nella resurrezione di Gesù. Non è stata la semplice coincidenza di date per cui Gesù, ebreo osservante com'era, celebrava un seder di Pèsah in quella che oggi chiamiamo la sua “ultima cena”; vi è in questa coincidenza la volontà di riarticolare un senso profondo già stabilito allora da un millennio.

Pèsah è insomma un simbolo ricchissimo di senso per tutta la civiltà occidentale, ben al di là del mondo ebraico. Parla del diritto e del dovere di ribellarsi all'oppressione, del rapporto con il divino, della necessità di costituirsi come popolo, della conquista della libertà, di uno spirito che non si lascia opprimere e riemerge anche dalla più terribile oppressione, dal genocidio che è morte complessiva. Per gli ebrei, ma forse non solo per loro, parla della terra della libertà, delle leggi sociali e personali, oltre che di quelle religiose, che bisogna rispettare per ottenere una vita buona. E parla di un rapporto con la presenza divina che è difficile, sempre problematico, ma vissuto come un incontro, una forma di vita, un modo di dare senso al mondo, un destino collettivo. Le forme della festa - il digiuno dei primogeniti che lo precede, segno del dolore perché la propria libertà sia stata ottenuta a prezzo della vita dei primogeniti nemici;  il pane azzimo che è quello povero, dei viandanti frettolosi; la riunione familiare in consuma il pasto della festa, coi suoi mille dettagli simbolici: tutto questo ribadisce l'idea che il cammino della libertà è anche un percorso di coscienza collettiva, di identità, di pensiero audace, di quel controllo di sé che è la base di ogni moralità.


Ugo Volli


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