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La Repubblica Rassegna Stampa
26.03.2013 I profughi di Campo Ashraf, altre vittime della teocrazia iraniana
commento di Vanna Vannuccini

Testata: La Repubblica
Data: 26 marzo 2013
Pagina: 30
Autore: Vanna Vannuccini
Titolo: «Gli ex Mujaheddin dimenticati in Iraq: il mondo ci aiuti»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 26/03/2013, a pag. 30, l'articolo di Vanna Vannuccini dal titolo "Gli ex Mujaheddin dimenticati in Iraq: il mondo ci aiuti".


Vanna Vannuccini

Nel silenzio generale dei giornaloni, finalmente uno che presta attenzione alla situazione dei profughi di Camp Ashraf, costretti in un campo a subire gli attacchi iraniani.
Come scrive Vannuccini, godono della simpatia di diverse associazioni in giro per il mondo. Si tratta, però, di appoggi inutili, dal momento che la loro situazione continua ad essere precaria e disastrosa da quando le truppe americane hanno lasciato l'Iraq. Costante bersaglio dei razzi iraniani, costretti a vivere in un campo e senza mezzi per andarsene.
Ecco il pezzo:

Nulla distingue l’albergo mal ridotto dalle catapecchie circostanti se non il blindato dell’esercito iracheno, piazzato in permanenza di fronte all’ingresso. L’hotel Al-Mohajer è l’approdo degli ex Mojahedin-e-Khalq, i Mujaheddin del Popolo sfuggiti all’organizzazione. Sono 12 nell’albergo. Il più fortunato partirà per la Germania. Amin ha più di 40 anni, di cui 25 passati a Camp Ashraf, una enclave nel territorio iracheno che Saddam aveva dato al Mek per addestrarsi a rovesciare il regime iraniano, fornendo denaro e armi in cambio dell’alleanza. Lì Amin guidava carri armati e costruiva container. Era dal 2003 che avrebbe voluto andarsene. Arrivato a Camp Liberty (una ex base americana) ha scritto alla commissione dell’Unhcr: voglio andar via. Spera di cominciare una nuova vita. Si sposa domani. Gli altri ex mujaheddin non escono mai. Dormono, consumano orridi tranci di pizza recapitati da un locale vicino, e raccontano gli ultimi 25 anni della loro vita da relitti della storia, dimenticati da tutti a eccezione forse delle loro famiglie. Erano soldati di leva in Iran quando negli Anni ‘80 furono fatti prigionieri dall’esercito di Saddam e poi reclutati dal Mek, che offriva un’alternativa alla prigionia. Molti accettarono l’offerta e si ritrovarono a Camp Ashraf. I mujaheddin in Iran avevano partecipato alla rivoluzione contro lo scià, ma erano andati in esilio dopo che Khomeini ne aveva fatti impiccare centinaia in carcere. Dopo la prima guerra del Golfo, quando Saddam coinvolse il Mek nel massacro di curdi e sciiti — perciò i mujaheddin iraniani sono odiati dalla popolazione irachena — cominciarono le prime defezioni. L’ideologia iniziale del movimento, un mix di marxismo e islamismo, degenerò in culto della personalità per i due leader, Massud e Maryam Rajavi, e l’organizzazione diventò più simile a una setta: lavaggio del cervello, separazione rigorosa di uomini e donne, voto di castità, obbligo di riferire in pubblico i propri turbamenti sessuali. Chi dissentiva, o chiedeva di andarsene, veniva bollato come agente del nemico. Il futuro degli oltre tremila mujaheddin è uno dei problemi irrisolti lasciati dagli americani in Iraq. Il governo di al-Maliki vorrebbe liberarsene. Dopo lunghe trattative, il rappresentante dell’Onu ha concordato con i capi il trasferimento da Camp Ashraf a Camp Liberty in cambio della cancellazione dall’elenco dei gruppi terroristici da parte del governo americano (in Europa erano già stati cancellati nel 2009 su richiesta britannica). A Camp Liberty l’Unhcr ha il compito di intervistarli e stabilire se abbiano diritto allo status di rifugiati. Ma lo scrutinio procede lentamente: i capi vorrebbero un trasferimento collettivo per evitare che il gruppo si disgreghi; e pochi Paesi accettano di accoglierli. L’Albania, per prima, si è resa disponibile, offrendo accoglienza a 210 dei 3000 esuli iraniani. È difficile spiegare come il Mek, un’organizzazione oscura dalla struttura totalitaria, conti su un gruppo stellare di sostenitori, in America e in Europa. Solo gli iraniani ne diffidano, compresi gli oppositori del regime all’estero, e dubitano della professione di fede democratica dei suoi capi. Il sostegno Usa può forse risalire all’arrivo degli americani in Iraq nel 2003, che pensarono di fare dei mujaheddin l’arma segreta contro il nucleare iraniano, addestrandoli al sabotaggio e all’intercettazione delle comunicazioni (nel Nevada, secondo le rivelazioni di Seymour Hersh sul New Yorker). Da allora molto di quel che è accaduto in Iran per rallentare il programma atomico (assassinii di scienziati, esplosioni) è stato opera loro. Misteriosa anche la pioggia di missili caduta in febbraio su Camp Liberty, con 7 morti nel campo. Maryam Rajavi accusa l’Iran, e chiede agli Usa di ritrasferire il gruppo ad Ashraf «per evitare nuovi massacri»; mentre il responsabile dell’Onu Kobler rilancia un appello perché il mondo dia loro asilo.

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