I farisei Leo Baeck Traduzione di Paola Buscaglione Candela Giuntina euro 10
I farisei sono stati ridotti a un vacuo esercizio di formalismo. È la “setta” più biasimata dell’ebraismo, dai tempi di Gesù a oggi. A lungo la parola “fariseo” è stata la più insultante nel vocabolario cristiano, la quintessenza dell’ipocrisia, il compendio delle non virtù. San Giovanni Bosco dice nella sua “Storia sacra”, scritta per il popolo e i bambini: “I farisei facevano consistere tutta la loro pietà nel portamento esterno, reputando lecita ogni sorta di nequizia purché si facesse in segreto”. “Il fariseismo non è questo”, scrive Leo Baeck. “La sua essenza è diversa. In esso è stato attuato il grandioso tentativo di fare della religione la religione della vita, della vita del singolo e di tutti, in modo che la religione camminasse di pari passo non solo con l’uomo, ma con la comunità, con lo stato”. È la tesi di questo straordinario e dimenticato “I Farisei” nella traduzione di Paola Buscaglione Candela e con una prefazione del biblista Piero Stefani. Leo Baeck (1873-1956), rabbino berlinese e rappresentante del giudaismo riformato, ha speso la sua ricerca nel tentativo di “reinserire il Vangelo nell’ambiente originale della Palestina ebraica e assegnare ai fatti e agli atti di Gesù la loro vera origine: la tradizione autentica dell’ebraismo”. Molto prima di salire su un treno per il campo di concentramento di Theresienstadt, nel 1943, e lodare Dio al di poco sopra l’ossario, Baeck aveva capito che “la storia millenaria dell’ebraismo tedesco è alla fine”. Nel lager impartì lezioni di Talmud, drammaturgia greca ed etica kantiana. Baeck ricolloca il messianismo di Gesù nelle vicissitudini della storia ebraica. Baeck appartiene alla famiglia di quei dotti talmudici consapevoli che in un tempo rivelato, dunque complesso e mai dogmatico, ci sono 49 significati nascosti. Ne fanno parte Joseph Klausner, che definì Gesù “un prodotto del giudaismo puro”. Baeck è attratto quasi gelosamente dalla figura del Cristo ebreo, che morì come membro del suo popolo, fedele alle sue pratiche, figlio della speranza ebraica e “resuscitato dai morti il terzo giorno”, come dicevano i Profeti. Il libro sui farisei è dunque una risposta al celebre “L’essenza del cristianesimo” di Adolf von Harnack, rispetto al quale Baeck rivendicava il carattere “giudaico” della predicazione di Gesù. Nella ricostruzione di Baeck, alle soglie dell’era cristiana il movimento farisaico subisce una polarizzazione che porta, da un lato, al costituirsi della fazione combattente degli zeloti e, sull’altro versante, all’esperienza contemplativa degli esseni. Secondo Baeck, i farisei nella diaspora sono “il primo esempio di una comunità fondata all’esterno del proprio paese, in nome della religione”. Sono i “separati”, tale è il significato di farisei, un considerarsi separati da tutto ciò che non era giudaico, considerato irreligioso e impuro. “Quel grandioso tentativo – annota da ultimo Baeck – doveva preparare il terreno per il regno di Dio. Il nome appartiene al passato, ma il significato del comandamento contenuto in quel nome è rimasto realtà ideale”. Il Vangelo è allora “un libro integralmente e perfettamente ebraico”, celebra la fede, l’oppressione, la sofferenza, lo spirito, la disperazione e l’attesa ebraica. Per questo “l’ebraismo non ha il diritto di passare davanti a esso senza fermarsi, di ignorare e di cercare di rinunciarvi. Anche qui deve cogliere e conoscere il proprio genio”. E Cristo, si domandava Baeck, non è forse erede di quel Giusto che ha appreso da Babilonia a lamentarsi, a essere insofferente, a interrogarsi, e che dall’Eufrate agli shtetl galiziani di Isaac Singer, è sempre stato così presente tra di noi?