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La Stampa Rassegna Stampa
25.03.2013 Negoziati: è l'Anp il vero ostacolo alla soluzione
Ma A. B. Yehoshua non lo scrive

Testata: La Stampa
Data: 25 marzo 2013
Pagina: 1
Autore: A. B. Yehoshua
Titolo: «Israele e Obama. Dopo le parole servono i fatti»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/03/2013, a pag. 1-35, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo "Israele e Obama. Dopo le parole servono i fatti".


A. B. Yehoshua                             Abu Mazen con una mappa dello Stato palestinese (Israele non esiste).               

Condividiamo tutto l'articolo di A. B. Yehoshua, tranne quando sostiene che l'unica via per far ripartire i negoziati sia il blocco dell' "espansione degli insediamenti, che rappresentano l’ostacolo più serio e difficile a una pace basata sul principio di due Stati per due popoli.".
L'ostacolo più serio è l'atteggiamento dell'Anp che, da sempre rifiuta il dialogo con Israele. La questione dei territori contesi avrebbe potuto essere risolta anni fa. Sia Barak sia Olmert avevano fatto offerte generosissime all'Anp (97% dei territori contesi e Gerusalemme Est). Sono arrivati solo rifiuti.
E attentati terroristici. 
Quando Netanyahu congelò le costruzioni nei territori contesi per 10 mesi, su richiesta di Abu Mazen,  lui si guardò bene dal riprendere  i negoziati. Aspettò con calma che la mortatoria scadesse per chiedere una proroga.
I 'negoziatori' palestinesi, poi, non offrono garanzie circa la sicurezza dei cittadini israeliani e rifiutano di riconoscere Israele come Stato ebraico.
E Gaza ? Di Gaza non scrive più niente nessuno, come dovrebbe regolarsi Israele con Hamas e i suoi razzi?
Ecco l'articolo:

Per due giorni io e mia moglie abbiamo mantenuto un po’ le distanze a causa del presidente americano Barack Obama. E non solo perché lei ha seguito con entusiasmo sui media ora per ora la visita del presidente in Israele e nell’Autorità palestinese ma anche in seguito a divergenze di opinione sul valore di questa visita per il futuro del processo di pace con i palestinesi.

Nel 2008, cinque anni fa, quando Obama era il candidato democratico alla presidenza, ha visitato Israele, come d’altro canto ha fatto il suo rivale repubblicano, George McCain. Entrambi (ognuno per conto proprio) hanno visitato la città di Sderot, costantemente bersagliata dei razzi lanciati da Gaza.

Ed entrambi sono stati nella stessa casa, colpita direttamente da un razzo, e hanno conversato con la stessa famiglia. Qualche tempo dopo un giornalista ha chiesto a una bambina di 12 anni, membro della famiglia, che impressione le avessero fatto i due uomini. «George McCain è una persona gentile» ha risposto la piccola, «si è interessato alla nostra situazione e ha ascoltato le nostre lamentele. Ma Barack Obama è qualcosa di diverso, è un vero uomo».

Ritengo che con questa strana e concisa definizione «un vero uomo» quella bambina abbia colto l’essenza interiore di Barack Obama. Un’essenza che lui irradia, conquistando gli animi e infondendo fiducia non a livello politico ma umano. Non è quell’autorevolezza carismatica che cerchiamo solitamente nei leader ma è un’umanità spontanea, generosa, senza pose, che si integra in maniera rara col prestigioso incarico di Presidente degli Stati Uniti.

Il perfetto coinvolgimento emotivo tra Stati Uniti d’America e Israele è unico nel suo genere ed elude qualunque definizione politica accettabile. È un’intimità quasi familiare che implica apertura, amore, promesse, delusioni, risentimenti e speranze, proprio come in ogni famiglia. Questa intimità si fa sempre più forte, indipendentemente da chi sia il Presidente americano e quale sia il governo d’Israele. Non era così nei primi anni dello Stato. Ricordo quanto fosse difficile al fondatore di Israele e suo leader più stimato fino a oggi, David Ben Gurion, ottenere un incontro, anche informale, con il Presidente degli Stati Uniti.

Ma dopo la guerra dei Sei Giorni e la sorprendente e travolgente vittoria sugli eserciti di Giordania, Egitto e Siria, Israele è diventato il beniamino degli Stati Uniti al punto che c’è chi sostiene che sia il suo cinquantunesimo Stato, anche perché nessuno di quelli che li compongono ha ricevuto un così sostanzioso sostegno finanziario e un tale trattamento di riguardo.

Il piccolo Israele è divenuto una specie di bambino prodigio per gli Stati Uniti, o di antenato mitico che assicura alla giovane nazione americana radici storiche e religiose antiche di migliaia di anni. L’ammirazione per le conquiste tecnologiche e culturali di Israele si mescola al senso di colpa degli Stati Uniti, e soprattutto dei suoi cittadini ebrei, per non aver fatto abbastanza per salvare il popolo ebraico dalla Shoah. E, naturalmente, più Israele è ammirato dagli americani, più pretende il loro incondizionato sostegno. Anche la cordiale visita di Obama è stata organizzata per placare l’ira suscitata dalla giusta e modesta richiesta durante il suo primo mandato di fermare l’espansione degli insediamenti, che rappresentano l’ostacolo più serio e difficile a una pace basata sul principio di due Stati per due popoli.

Quante parole gentili di ammirazione e di riconciliazione ha dovuto elargire il Presidente della nazione più potente del mondo nei confronti di Israele durante questa visita per inserire nei suoi discorsi qualche cauta critica sugli insediamenti, che agli occhi della politica americana sono sempre stati un ostacolo alla pace. Con quanta facilità gli Stati Uniti hanno agito con forza ingiusta e brutale in tutto il mondo (in Vietnam, per esempio, o, di recente, in Iraq) e con quale tono sottomesso e contrito si rivolgono a Israele, che dipende completamente da loro, per chiedergli di fermare gli insediamenti.

Finora Barack Obama non fa eccezione nella serie di Presidenti americani che hanno capito quale danno rappresentano gli insediamenti a una soluzione del conflitto tra palestinesi e israeliani ma non hanno fatto nulla per impedirli. Presidenti americani che hanno visto Israele investire un sacco di soldi in centri abitati nel Sinai e a Gaza e investirne altri per smantellarli e risarcire i residenti, e che non hanno potuto impedire la costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Perciò, per quanto anch’io sia rimasto colpito dal particolare calore della visita di Obama, non posso dimenticare i Presidenti precedenti, Clinton e Bush, che hanno fatto promesse calorose e incoraggianti per il processo di pace durante le loro visite, o le decine di ministri degli Esteri americani e di inviati speciali che hanno cercato di dare una spinta al processo di pace senza ottenere niente.

Sembra che fino a quando gli Stati Uniti non abbandoneranno il loro atteggiamento sentimentale nei confronti di Israele non saranno in grado di agire con l’autorità di una superpotenza per far ripartire il processo di pace.

I discorsi di Obama sono un’opera d’arte, pieni di ispirazione e di saggezza, ma ciò che conta non sono le parole bensì i fatti. È arrivato il momento di smettere di guardare Israele in un’ottica romantica e leggendaria e di sostenerlo in base a criteri politici reali. E questo affinché lo Stato sorto sulle rovine della Shoah trovi il suo giusto posto nella regione e non sia costretto ad affrontare ancora una volta la minaccia di uno sterminio.

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