Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 21/03/2013, a pag. 15, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Obama deluso dai musulmani cerca la 'primavera israeliana' ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Israele dà il benvenuto a Obama con il 'governo dei coloni' ", l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Obama rassicura Bibi e negozia un piano strategico sulla Siria ". Dalla STAMPA, a pag. 1-11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Gas e petrolio 'in casa', così l'America si tira fuori ". Da REPUBBLICA, a pag. 20, l'articolo di Etgar Keret dal titolo " Quella finzione della magnolia e le speranze di due popoli ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Obama deluso dai musulmani cerca la 'primavera israeliana' "
Fiamma Nirenstein Barack Obama con Shimon Peres
Gerusalemme. Tutti sembrano avere imparato la lezione: cambia musica fra gli Stati Uniti e Israele. Un paio di anni di Fratellanza Musulmana all’assalto del potere, decine di migliaia di morti in Siria, l’Iran vicino alla bomba... sembrano aver vaccinato tutti: è il tempo della coesione, non di inutili scaramucce. Obama e Netanyahu si avvicinano. I preparativi sono stati ossessivi: ma ora sotto il sole dell’aeroporto Ben Gurion, ecco Obama che si affaccia dall’Air Force One, e sembra molto contento. La musica della banda dell’esercito si fa sotto, i nuovi ministri israeliani si allineano per una pacca sulla spalla del principe azzurro.Quando sta per aprirsi il portello, Shimon Peres a Bibi Netanyahu sono concentrati. Quante cose sono in causa. L’Iran non si piega, in Siria forse sono state usate armi chimiche, i palestinesi sono innervositi e combattivi mentre aspettano oggi Obama a Ramallah.
Il rapporto, fino a oggi sfilacciato, con gli USA, è ormai per Israele la salute stessa, forse anche la vita, una visita di Obama qui è doversa da ogni altra visita nel mondo, e anche per gli USA è così: Israele come ha detto John Biden “ è la migliore nave da guerra che abbiano gli USA”, è il suo pezzo di terra ferma in mezzo alla palude della Fratellanza Musulmana su cui si erge anche il picco atomico del pericolo iraniano. Ed ecco all’aeroporto il cambio strategico, sotto i nostri occhi. Obama cammina con Bibi e Peres per l’aeroporto ed è tutto un segnale di amicizia, un linguaggio corporeo in cui il gesto “cool” e intimo di Obama quando si toglie la giacca è subito seguito da Netanyahu. Insieme salgono sul palco. Il Primo Ministro israeliano con tono davvero commosso dopo le parole di benvenuto di Peres, dice «Ho solo da dire “grazie” ». E ripete grazie per l’incessante sostegno, per l’aiuto all’ONU, per l’impegno militare, per le sanzioni contro l’Iran.
E’ dimenticata l’illusione di Obama che i palestinesi possano essere ipnotizzati da gesti di rinuncia territoriale, da stop alle costruzioni, non c’è traccia di astio perchè Obama non è venuto prima come presidente.. Poi Obama a sua volta fa una vera e propria scelta di riparazione. Non fa più l’errore di riferire la nascita di Israele alla reazione mondiale alla Shoah, parla ora del diritto di nascita maturato in migliaia di anni, del ritorno del popolo ebraico alla sua terra. Lo dice ribadendo che non è per caso che qui ha luogo il suo primo viaggio da neoeletto. Quello dell’altra volta nel 2009, fu al Cairo, all’Università di Al Azhar: le sue parole marchiarono la fine di Mubarak, rivolse il suo discorso alla “nazione musulmana” immaginando di conquistare il grande popolo della Fratellanza Musulmana, che poi ha preso il potere in tutte le rivoluzioni arabe.
Nel maggio del 2009 Obama inaugurò anche un atteggiamento conflittuale chiedendo il famoso “freeze” totale degli insediamenti. Intanto l’atmosfera mediorientale si è scaldata anche a causa dell’Iran, l’altro grande centro della visita. Obama mentre camminava con Bibi che gli indicava il sentiero di marcia segnato con una linea rossa ha scherzato “tu mi indichi sempre delle linee rosse”.
Il presidente teme che per Bibi quella invalicabile sia a novembre, quando la bomba potrebbe essere assemblata. L’intensità di tre ore di colloquio a quattr’occhi ha portato a una conferenza stampa che mantiene molti segreti, anche se Obama ha ribadito che gli USA non permetteranno che gli Ayatollah arrivino all’atomica. La scelta diplomatica resta la preferita “e c’è ancora tempo”, ma “sono aperte tutte le opzioni”, anche quindi quella militare. Sui palestinesi, il tema insediamenti è sparito, Obama ha parlato solo di “due Stati per due popoli”, riprendendo peraltro quanto già ripetuto da Bibi. Sulla Siria, gli USA sulle notizie ancora non del tutto accertate dell’uso di armi chimiche sembra meditare un intervento più deciso. Ma se tutto questo abbia convinto Netanyahu a rinunciare a agire da solo contro l’Iran se a Israele sembrerà che “la linea rossa” sia stata raggiunta, su questo si discuterà anche domani, al ritorno da Ramallah.
www.fiammanirenstein.com
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Gas e petrolio 'in casa', così l'America si tira fuori "
Maurizio Molinari Barack Obama con Bibi Netanyahu
Dietro il viaggio di Barack Obama in Medio Oriente c’è la scelta strategica di favorire un riassetto regionale che favorisca le tre potenze locali alleate: Arabia Saudita, Turchia e Israele.
Rispetto al 2009, quando Obama parlò al mondo arabo dal Cairo, il Medio Oriente è radicalmente mutato per due motivi.
Il primo ha a che vedere con l’impatto delle sollevazioni che hanno spazzato via gli alleati in Tunisia, Egitto e Yemen, rovesciato l’avversario di Tripoli e di molto indebolito quello di Damasco rendendo possibile nuovi equilibri di forza. Il secondo invece riguarda gli Stati Uniti: lo sfruttamento dello «shale gas» in Canada, il boom petrolifero in Texas e North Dakota e il nascituro mega oleodotto dall’Alberta al Golfo del Messico rendono possibile la trasformazione del Nordamerica in un colosso energetico capace di garantire agli Stati Uniti, secondo stime a conoscenza della Casa Bianca, l’indipendenza dal greggio del Golfo Persico fra il 2016 e il 2020. Ciò significa che gli Stati Uniti, per la prima volta dalle concessioni petrolifere saudite alla «Standard Oil of California» del 1933, possono immaginare di emanciparsi dalla regione più instabile del Pianeta.
Poiché i presidenti Usa nel loro secondo mandato hanno in mente l’orizzonte della Storia, ciò comporta che Obama è – dai tempi di Franklin D. Rooselvt – il primo a poter gettare le basi di un nuovo assetto strategico del Medio Oriente nel quale gli Stati Uniti «guidano da dietro» ovvero senza un impegno diretto, puntando sui propri alleati. È un cambiamento che Obama vede con favore perché consente all’America, in prospettiva, di avere meno attriti con l’Islam e più energie da impegnare nelle sfide del XXI secolo: contenimento della Cina, commerci transoceanici e sicurezza nel cyberspazio.
L’alleato di Washington che ha intuito per primo la svolta è stata l’Arabia Saudita. È avvenuto quando Obama, lo scorso anno, ha posto il veto sulla fornitura di armi ai ribelli siriani. Dopo una reazione a caldo di forte irritazione, a Riad raccontano diplomatici a Washington - è prevalsa la convinzione che toccasse al regno wahabita sostituirsi agli Usa nel ruolo di potenza di riferimento dei ribelli anti-Assad. Da quel momento Riad ha preso le redini delle forniture di armi e costruito dentro la Lega Araba la coalizione antiAssad da cui sono escluse solo le capitali sotto l’influenza di Teheran: Baghdad, Beirut e, ovviamente, Damasco. L’emergere dei sauditi come leader del fronte sunnita, anche nelle operazioni militari, si deve all’indebolimento dell’Egitto di Morsi e si accompagna al crescente ruolo del più importante alleato non-arabo di Riad: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Ankara è considerata da Washington la nazione di riferimento per i movimenti della primavera araba considerati «islamici moderati» ovvero quelle formazioni dei Fratelli Musulmani che, dal Cairo a Tunisi fino ad Amman, possono trovare nel partito «Giustizia e Sviluppo» di Erdogan un modello. Il leader di Ankara non a caso è il più fervido sostenitore delle aperture Usa agli «islamici moderati», fino al punto da includervi i fondamentalisti di Hamas a Gaza.
Il terzo alleato strategico di Washington nella regione è lo Stato ebraico e i motivi sono quelli descritti ieri da Obama all’arrivo: valori democratici, interessi comuni e legame morale dell’America con la rinascita sionista nella Terra di Israele. Finora Gerusalemme è stata più lenta, rispetto a Riad ed Ankara, nel ritagliarsi un’indipendenza di azione da Washington. Ma le premesse ci sono tutte: gli ingenti giacimenti di gas naturale a largo di Haifa consentono di immaginare l’emancipazione dal greggio, il boom dell’hi-tech promette di sostenere nel lungo termine la crescita economica e i blitz in Siria e Sudan suggeriscono maggiore flessibilità militare. La transizione dall’era della «pax americana» ad un Medio Oriente in equilibrio fra sauditi, turchi e israeliani potrebbe avere il momento decisivo nell’eliminazione del nucleare iraniano perché Teheran, grazie all’atomica, potrebbe guidare l’alleanza rivale, sciita, con continuità territoriale dal Beluchistan alla Bekaa.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Israele dà il benvenuto a Obama con il 'governo dei coloni' "
Giulio Meotti
Roma. All’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, ad accogliere il presidente americano Barack Obama per la prima volta ieri c’erano anche tre sindaci “coloni”: Benny Kashriel dell’insediamento di Maaleh Adumim (in cui sorge il controverso progetto E1 condannato dalla Casa Bianca), Avi Roeh del consiglio dei settlers e Oded Revivi del municipio di Efrat. Il giornale Haaretz, lanciato già all’attacco del nuovo governo di Benjamin Netanyahu, lo ha ribattezzato “l’esecutivo dei coloni”. Il riferimento è all’impressionante numero di cariche strategiche nel nuovo governo Netanyahu finite nelle mani di uomini legati alla destra nazionalista e ai territori amministrati. I tre personaggi chiave che dirigono la diplomazia israeliana sono tutti abitanti delle colonie: Zeev Elkin, vice ministro degli Esteri e autentico reggente del ministero in attesa che torni Avigdor Lieberman, vive in una roulotte nel blocco del Gush Etzion; il nuovo speaker della Knesset, Yuli Edelstein, abita a Neve Daniel, una colonia a sud di Betlemme, e lo stesso ministro degli Esteri Lieberman (per adesso alle prese con i guai giudiziari) ha casa a Nokdim, un insediamento nel deserto della Giudea. Elkin è un sostenitore della “one state solution”, ovvero l’annessione dei Territori. Edelstein, figlio di un pope ortodosso e di madre ebrea, ha speso tre anni nelle carceri sovietiche da refusnik, prima di emigrare in Israele e guidare gli oltranzisti del partito Yisrael Beitenu. Era il 1994 quando il regista francese Claude Lanzmann girò il film “Tsahal”, dedicato a Israele e al suo esercito. Uno dei personaggi del film si chiamava Uri Ariel, un ragazzone alto e dinoccolato che difendeva la versione dei coloni. Oggi Ariel guida l’Housing Ministry, il ministero degli Alloggi, da sempre feudo degli ultraortodossi e oggi finito nelle mani dei coloni, un ministero strategico in un paese dove il novanta per cento della terra è statale. La Israel Lands Administration è guidata da Benzi Lieberman, già dirigente del consiglio dei coloni, mentre Nissan Slomiansky, del partito Habayit Hayehudi di Naftali Bennett, è il nuovo capo della commissione Finanze della Knesset, che controlla i fondi per le colonie. Lo stesso Bennett, nominato ministro dell’Economia, è l’alleato fondamentale di Netanyahu nella coalizione e il suo piano prevede l’annessione degli insediamenti (come avvenne per il Golan), un’“autonomia” per i palestinesi e la cittadinanza israeliana a cinquantamila arabi che vivono a ridosso delle colonie. La seconda carica della Knesset è stata assegnata ieri a Moshe Feiglin, che alla guida del gruppo “Zu Arzenu” guidò, negli anni Novanta, le accese manifestazioni di protesta contro il governo di Yitzhak Rabin che aveva firmato gli accordi di Oslo con l’Olp. Da un elicottero Feiglin guidava colonne di centinaia di migliaia di dimostranti, al fine di paralizzare il paese. Nel 2005 Feiglin contestò con fischietti l’allora premier Ariel Sharon presentatosi al comitato del Likud per ottenere il via libera al ritiro unilaterale da Gaza. Il ministero della Difesa, che gestisce i Territori e la vita nelle colonie, è guidato da due falchi vicini ai settlers: il generale Moshe Yaalon e il viceministro Danny Danon, autore di un libro in cui propone la “soluzione a tre stati”, in cui i palestinesi non ottengono alcuno stato ma si federano con Egitto o Giordania. Yaalon è contrario a ogni congelamento delle colonie ma sostiene il “nation building” per i palestinesi (sviluppo economico e sociale). La principale voce contro gli insediamenti dentro al governo sarà quella di Tzipi Livni, cui Netanyahu ha affidato il ministero della Giustizia. Il Consiglio dei coloni, all’arrivo di Obama ieri, ha consegnato allo staff del presidente un libro sul futuro roseo degli insediamenti. Si prevede una popolazione ebraica di un milione entro le prossime due generazioni.
Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Obama rassicura Bibi e negozia un piano strategico sulla Siria "
Mattia Ferraresi Bashar al Assad
New York. “Al momento non abbiamo elementi per provare che sono state usate armi chimiche in Siria”. Davanti a una commissione del Congresso l’ambasciatore americano in Siria, Robert Ford, ha ripetuto quello che la Casa Bianca ha detto martedì dopo che sono stati riportati, senza conferme, attacchi con armi chimiche nel nord del paese. Quella è una delle “red line” fissate da Barack Obama per un intervento militare in Siria. Il ministro dell’Intelligence e degli affari strategici del nuovo governo Netanyahu, Yuval Steinitz, ha detto invece alla radio dell’esercito israeliano che è “chiaro” che ordigni di quel tipo sono stati impiegati in Siria, e la convinzione è confermata da una pioggia di dichiarazioni anonime di funzionari della sicurezza israeliana. E’ una specie di coro che ha accompagnato la prima giornata di Obama in Israele, l’inizio di una missione di “remedial diplomacy” per rassicurare l’alleato sulla minaccia iraniana e ristabilire, con ampio ricorso ai simboli, il senso di un’alleanza che “posso dichiarare con fiducia che è eterna”, come ha detto Obama nel breve discorso introduttivo. L’Iran è uno degli argomenti fondamentali delle discussioni a porte chiuse fra Obama e Netanyahu – così come gli insediamenti e il processo di pace – ma la Siria è il dossier più urgente. E Obama funge da apripista per la visita, il mese prossimo, del segretario del Pentagono, Chuck Hagel. Brian Katulis, analista del Center for American Progress, il pensatoio più vicino all’Amministrazione Obama, dice al Foglio che “la Siria è in cima alla gerarchia delle priorità di questo viaggio. L’aspetto simbolico è politicamente rilevante, ma Obama e Netanyahu devono valutare un’idea strategica per il dopo Assad. A porte chiuse si parlerà soprattuto di quello, perché la caduta del regime sarà soltanto l’inizio del problema, e mentre per contrastare l’Iran abbiamo un’idea strategica, sulla Siria va costruita”. In questo senso la visita di Obama in Giordania – dove ci sono circa 400 mila profughi siriani – assume un peso specifico enorme: “Re Abdullah chiederà a Obama di parlare con gli alleati dell’area, specialmente con i sauditi, per rafforzare l’alleanza strategica, e questo è importante anche per gli interessi israeliani”. Elliott Abrams, diplomatico americano ed ex consigliere di Reagan e Bush, è appena tornato da un lungo viaggio in Israele dove, dice al Foglio, “ho registrato un’enorme preoccupazione sulla crescita dei jihadisti in Siria. Come si comporteranno questi elementi il giorno dopo la cacciata di Assad? Potrebbero rimanere in Siria, oppure spostarsi in Libano o accrescere la faida fra sciiti e sunniti in Iraq. Alcune di queste soluzioni sarebbero drammatiche per Israele, che ha bisogno di Washington per costruire un progetto siriano credibile. Ad Amman, ad esempio, Obama troverà un regno pieno di profughi, impoverito e con relazioni mediocri, per dir così, con i vicini. Su questo tema avrà i dialoghi più importanti”. Certo, l’Iran rimane una issue decisiva per Netanyahu, il quale, dice Abrams, “è riuscito a estendere il consenso internazionale sulle effettive capacità di Teheran di costruire l’atomica e ora chiede a Obama di esprimersi con più convinzione. Washington ora sta usando una retorica più dura contro l’Iran rispetto al passato, ma Israele vuole un impegno concreto, altrimenti sono convinto che procederà da solo allo strike. Lanciare da Gerusalemme un messaggio contro l’Iran servirà ad aumentare il coefficiente di penetrazione di Obama”. Le manovre strategiche spetteranno poi a Hagel nella missione di aprile, secondo tempo della visita obamiana.
La REPUBBLICA - Etgar Keret : " Quella finzione della magnolia e le speranze di due popoli "
Etgar Keret Barack Obama pianta una magnolia nel giardino di Peres
Etgar Keret tenta la scalata per raggiungere i piani alti Grossman-Oz-Yehoshua, ma i mezzi che ha non glielo consentono.
Un compitino da terza media che Repubblica spaccia per 'dotta analisi'.
Credo che l’immagine che meglio rappresenta la visita di Obama in Israele sia quella della magnolia. Portata come regalo direttamente dai giardini della Casa Bianca e piantata all’interno del giardino della residenza del nostro presidente, Shimon Peres. «Come segno del legame tra i due Paesi», è stato detto davanti a fotografi e giornalisti. Ma subito dopo la fine delle conferenza stampa e degli scatti fotografici la magnolia è stata tolta dal giardino per essere messa in quarantena, come prevedono le norme sull’importazione di piante e alberi in Israele. Ecco il riassunto di quello che sta succedendo. Niente è come sembra, anzi: come viene detto. Perché Obama e Netanyahu riempiono i loro discorsi con la parola «amicizia», nonostante siano tutt’altro che amici. Quei due si detestano, in realtà. Netanyahu è stato infatti il primo Premier israeliano ad appoggiare apertamente un candidato alla presidenza americana: peccato che fosse Mitt Romney. Il perdente, oltretutto. Da parte sua Obama non ha alcuna fiducia in Netanyahu, nonostante si sforzi di salvare le apparenze, parlando di Israele come di uno Stato amico e di tutto il resto. Una situazione che mi ricorda quella delle famiglie più tradizionaliste e conservatrici, in cui il padre picchia la moglie e i figli per poi presentare ad amici e parenti la sua famiglia come moderna, aperta e tollerante. La seconda parola più citata nei discorsi di Obama e Netanyahu è «pace». E anche qui mi sembra che ci sia qualcosa di strano. Perché avremmo bisogno più di azioni che di parole, per realizzare una vera coesistenza pacifica con i palestinesi. Ma la questione non è come sembra quella dei palestinesi, quanto invece l’Iran. Netanyahu vorrebbe che fossero gli americani ad attaccare Teheran. Obama invece, non vorrebbe che ad attaccare fosse proprio Netanyahu, ma prova a convincerci che sostiene Israele. Ed entrambi parlano di pace e amicizia. Io vorrei sapere cosa si dicono davvero quei due. Oltre il gelo e parole di circostanza. Perché non mi aspetto nulla, ma la pace la vorrei davvero. Possibilmente più sincera e duratura di una magnolia piantata per i fotografi in un giardino di Gerusalemme.
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