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" Iran nucleare, uno dei maggiori fallimenti diplomatici di Obama "
“Poi non diteci che non ve l’avevamo detto” si potrebbe commentare a posteriori sull’atomica iraniana. Ieri, in occasione del capodanno persiano, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è tornato a parlarne: i cittadini iraniani, ha dichiarato, stanno pagando un prezzo salato (le sanzioni economiche) a causa del rifiuto dei loro leader di rispondere alle preoccupazioni della comunità internazionale sul loro programma nucleare. Obama si è augurato che la leadership di Teheran cambi rotta, così che la società dell’Iran possa “godere delle stesse opportunità” di cui godono le altre nazioni del mondo. E’ il solito ragionamento “bastone contro carota” che dovrebbe servire a rafforzare la posizione americana durante tutti i negoziati. Sinora l’Iran ha dimostrato di saperlo ignorare senza fare una piega. Obama ha ripetuto il suo discorso in occasione della riunione tecnica di Istanbul, il seguito di quella di Almaty (in Kazakhstan) della fine di febbraio. A Istanbul, sotto l’egida dell’Unione Europea, i rappresentanti di Teheran stanno discutendo sulla questione nucleare con il gruppo di contatto del 5+1 (i quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania). Le parole di Obama, dunque, dovrebbero servire come un sollecito. Il 14 marzo scorso, il presidente statunitense, noto per la sua politica della “mano tesa” a Teheran, aveva fatto una dichiarazione insolita per lui: “Pensiamo che l’Iran possa sviluppare un’arma atomica in un anno o poco più, ma ovviamente non lasceremo che ci si avvicini così tanto”. Lo aveva detto in un’intervista rilasciata al secondo canale della Tv israeliana. Ribadendo anche il concetto che “tutte le opzioni” compresa quella militare “sono ancora sul tavolo”. Dunque, siamo a “un anno o poco più” dalla realizzazione dell’arma atomica iraniana, con cui il regime di Teheran potrà realizzare il sogno di “spazzar via l’entità sionista dalla carta del mondo”, come ha avuto modo di dichiarare più volte il presidente Ahmadinejad. Il senso di urgenza sull’imminente Armageddon, però, esiste nelle parole, ma finora è stato completamente ignorato nelle azioni. La posta in gioco diplomatica è ancora molto bassa, a giudicare dai negoziati in corso ad Almaty prima, ad Istanbul ora e ancora ad Almaty il prossimo aprile. Il gruppo di contatto, fra cui gli Stati Uniti, chiede semplicemente all’Iran di aprire le porte a nuove ispezioni e di rinunciare all’arricchimento dell’uranio (un processo con cui si può fabbricare materiale fissile adatto alla costruzione di testate nucleari) in uno solo dei siti sospetti, quello sotterraneo e fortificato di Fordo. In cambio sono pronte concessioni economiche, quale la rimozione delle sanzioni sul commercio dell’oro e dei metalli preziosi. Sul piano militare, i segnali che l’amministrazione Obama sta lanciando sono disarmanti (nel senso letterale del termine). La presenza navale statunitense nel Golfo Persico è stata ridotta ad una sola portaerei, la Uss John Stennis, con la sua task force. E’ appena un terzo rispetto alla flotta che incrociava quelle stesse acque un anno fa. Un altro grande segnale è stato lanciato, lo scorso fine settimana, con l’annullamento della Fase 4 del dispiegamento dello scudo anti-missile europeo. La Fase 4 prevedeva lo schieramento di missili anti-missile Standard IIB in Polonia, capaci di intercettare, fuori dall’atmosfera, anche missili balistici intercontinentali. Il suo completamento doveva avvenire entro il 2020. Ora è stata annullata per motivi politici, più ancora che economici: preoccupava la Russia ed era considerata “ridondante”. Ma, intanto, è una difesa in meno di fronte alla capacità missilistica iraniana, che già nel 2009 era abbastanza avanzata da mandare un primo satellite in orbita.
Si dà per scontato che la Repubblica Islamica non sia ancora in grado di fabbricare testate nucleari. Ma il presidente dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), Yukiya Amano, vuole urgentemente ispezionare il sito militare di Parchin. Dove, a quanto pare, si svolgono test per la costruzione delle testate. Amano, lo scorso 4 marzo, ha dichiarato che le ispezioni devono avvenire “senza ulteriori ritardi” e “indipendentemente dal fatto che nei negoziati si raggiunga o no un accordo”. Proprio a proposito dei negoziati, Amano ha detto che: “devono svolgersi con un senso di urgenza”. Già nel 2011, il presidente dell’Aiea rifiutava di prendere in considerazione la richiesta iraniana di ammorbidire il suo rapporto: “Non ho alcuna ragione per ‘annacquare’ il mio rapporto. L’intera massa di informazioni raccolte mi induce a prendere la decisione di lanciare un allarme al mondo. Più metto assieme i pezzi di queste informazioni, più il disegno mi appare chiaro”. Lanciare “un allarme al mondo”. Nel 2011. Ora sono già passati due anni. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, non certo un “falco”, alla vigilia dei negoziati di Almaty, dichiarava: “Non dobbiamo lasciare molto più tempo agli iraniani e non dobbiamo perderne altro. Abbiamo visto che cosa è successo con la Corea del Nord (che aveva appena condotto un test missilistico e uno nucleare, ndr). E’ andata a finire che, segretamente, silenziosamente e senza alcuna pressione, ha fatto progressi”. Nella sua proliferazione di armi di distruzione di massa, intendeva. Fra l’altro, proprio a proposito di Corea del Nord, secondo un think tank statunitense, l’American Foreign Policy Council, una delegazione tecnica della Repubblica Islamica, era presente nel “regno eremita” al momento del suo ultimo test atomico. Non è un mistero che i due “Stati canaglia” abbiano cooperato nei loro programmi nucleare e missilistico: il disegno dei vettori, tanto per fare un esempio, è lo stesso. Una delle banche nordcoreane colpite dall’ultimo round di sanzioni, era accusata proprio di finanziare i progetti atomici di Teheran, oltre che di esser parte di quelli nordcoreani. La Rand Corporation, uno dei più celebri istituti di analisi militare degli Stati Uniti, ipotizza anche che la bomba fatta esplodere da Pyongyang nel suo ultimo test, fosse costituita da uranio arricchito (probabilmente prodotto in Iran) e non da plutonio, cioè dal materiale fissile a disposizione dei nordcoreani, usato nei precedenti esperimenti. Insomma, meno di un mese fa avremmo assistito a un test di una bomba atomica che entrerà in servizio sia in Iran che in Corea del Nord? Non lo sappiamo con certezza. Ma questo spiegherebbe meglio, dopo anni di chiusura, il perché dell’improvvisa apertura diplomatica iraniana negli ultimi negoziati. Fosse vero, sarebbe la più grave sconfitta della politica estera statunitense, almeno dai tempi di Carter. |
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