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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
17.03.2013 Mappa delle identità ebraiche nel libro di Bernard Wasserstein
Commento di Donald Sassoon

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 17 marzo 2013
Pagina: 21
Autore: Donald Sassoon
Titolo: «Mappa delle identità ebraiche»

Sul supplemento DOMENICA del SOLE24ORE di oggi, 17/03/2013, a pag.21, con il titolo ''Mappa delle identità ebraiche'', Donld Sassoon recensisce il libro di Bernard Wasserstein ''On The Eve: The Jews of Europe before the Second World War, Profile Books, pagg. 576)''.
Sassoon ha letto il libro di Wassertein e ne ha fatto un diligente riassunto, dal che si desume essere una lettura interessante, se non altro  per le citazioni che contiene. Ci convincono meno le opinioni personali del recensore, poteva tenerle per sè, essendo molte di una banalità alquanto pesante. A voler essere generosi.


La copertina              Bernard Wasserstein   Donald Sassoon

Ecco una domanda antica, ma spesso posta come se fosse la prima volta. Cosa vuol dire essere ebreo? È una questione di religione? Certo, l'ebraismo è una religione, ma solo una minoranza di ebrei sono praticanti e un ebreo non praticante rimane «ebreo» in un modo diverso da un ex-cattolico. Si tratta di un'etnia? Improbabile, dato che ormai sono tutti d'accordo nel ritenere che la «razza» non esiste e che l'etnia sia un concetto puramente culturale. Difficilmente si potrebbe affermare che gli ebrei abbiano una cultura in comune. Né gli ebrei hanno una lingua. Molti, è vero, parlavano Yiddish, ma altri parlava-no ilgiudeo-spagnolo,e la maggior parte parla la lingua del Paese in cui si trova. L'ebraico, fino alla fondazione dello Stato di Israele, era parlato solo dagli ebrei religiosi e era riservato alla preghiera e allo studio della Torà. Gli ebrei di Vilnius e quelli di Aleppo, quelli di Odessa e quelli di Roma mangiavano cibo completamente diverso, come dimostra il libro di Claudia Roden, The Book of Jewish Food. E né gli ebrei di Vilnius né quelli di Aleppo, contrariamente alla mitologia sionista, sognavano di "ritornare" in Israele (quelli di Vilnius volevano soprattutto emigrare in America, come gli italiani e i polacchi, mentre quelli di Aleppo andavano al Cairo, come i miei nonni, o a Costantinopoli). Gli ebrei stessi hanno difficoltà a spiegare cosa si intende per essere ebreo. Kafka si chiedeva: «Cosa ho in comune con gli altri ebrei?». E rispondeva identificandosi con gli ebrei perseguitati. Un modo di dire, come Sartre spiega, che è l'anti-semita che "costruisce" gli ebrei e che rafforza la loro identità, così come fu la Shoah la causa motrice dietro la creazione dello Stato di Israele. An- Bernard Wasserstein, nel suo nuovo libro, non riesce a dare una risposta, ma traccia in maniera dettagliata la loro presenza nell'Europa del '900 che Freud non riusciva a trovare risposta: non conosco l'ebraico, diceva, non sono credente, non sono sionista, quindi cosa mi rimane di ebreo? La sua risposta: «Moltissimo... probabilmente l'essenza stessa dell'essere ebreo». Ma questa misteriosa «essenza»lui, il grande analista, ammetteva (in modo un po' disarmante), «non riesco a esprimerla chiaramente a parole». Neppure Bernard Wasserstein nel suo nuovo e bel libro (On The Eve: The Jews of Europe before the Second World War, Profile Books, pagg. 576, 25,0o) sulle condizioni degli ebrei negli anni Venti e Trenta non può rispondere alla domanda, ma ci offre invece una mappa straordinaria e affascinante degli ebrei d'Europa alla vigilia del genocidio. Nel 1939 vi erano una decina di milioni di ebrei nel vecchio continente, tre quarti dei quali si trovavano in soli quattro Stati: Polonia (3,2 milioni), Urss (3 milioni), Romania (850mila) e Ungheria (625mila). Un altro milione in tre Stati dell'Europa occidentale: Gran Bretagna (380mila), Francia (320mila), e Germania (345mila). In Italia vi erano solo 47mila ebrei, molto meno che nelle piccole repubbliche baltiche. Ciò che emerge fortemente dai dati di Wasserstein è la grande diversità del mondo ebraico in Europa. Una minoranza erano sefarditi(dieci percento, quasi tutti nelle zone europee dell'ex-Impero Ottomano). Gli altri, gli ashkenaziti, erano profondamente divisi: i Litvaks in Lituania e i Galitsyaner in Galizia, poi c'erano quelli di Odessa, i polacchi, gli Ostjuden (emigrati dall'Europa orientale), e quelli moderni ed emancipati degli Stati dell'Europaoccidenta-le. Ogni gruppo nutriva stereotipi sugli altri. Come scriveva ironicamente Joseph Roth: «Più un ebreo si trova a occidente più guarda dall'alto in basso gli altri ebrei. L'Ebreo di Francoforte disprezza quello di Berlino, l'Ebreo di Berlino disprezza quello di Vienna, l'Ebreo viennese disprezza quello di Varsavia. Poi ci sono gli ebrei di Galizia, che tutti disprezzano. Ed è da lì, dalla Galizia, che io vengo, io, il più disprezzato di tutti gli ebrei». Ma anche qui cosa c'è di così speciale? È purtroppo abbastanza comune disprezzare quelli che hanno accenti diversi o che vengono da altre parti o che sono meno facoltosi o meno colti o quelli che hanno credenze od opinioni politiche diverse. Forse gli ebrei, come gli inglesi, gli italiani, gli americani e altri, credono che tutto ciò che li riguarda è eccezionale. Wasserstein, spassionatamente, ci spiega come gli ebrei, essendo per lo più residenti in centri urbani ed essendo spesso discriminati nell'impiego sia pubblico che privato erano costretti a diventare lavoratori autonomi. I numeri sono da capogiro. Nella Romania degli anni Trenta, ad esempio, gli ebrei possedevano quasi un terzo di tutte le imprese commerciali private, pur essendo ben lontani dall'essere ricchi: molti erano venditori ambulanti e umili artigiani. A Vienna il 65 per cento dei medici erano ebrei, in Polonia, il 50 per cento. In Ungheria, dove gli ebrei erano solo il cinque per cento della popolazione, la metà degli avvocati e un terzo dei giornalisti erano ebrei. L'accesso al servizio pubblico era difficile dappertutto tranne che nell'Unione Sovietica, il Paese in Europa dove, prima della guerra, «gli ebrei erano maggiormente rappresentati nell'élite al potere». Anche se gli ebrei sovietici erano solo l',8 per cento della popolazione prima del 1939, erano ben il 12,5 per cento dei laureati. Gli ebrei in quanto tali non furono un obiettivo primario del terrore staliniano degli anni Trenta (Genrich Jagoda, un ebreo, fu il capo della polizia segreta, la Nkvd, nel1934-36, prima di essere anche lui liquidato). La maggior parte degli ebrei europei di prima del 1939 erano poveri o di condizioni modeste. I più prosperi, tuttavia, erano proprio gli ebrei tedeschi, così orgogliosi della loro cultura tedesca, e così sprezzanti dello stile di vita degli ebrei polacchi e russi. Per loro l'avvento del nazismo fu causa di un grande disorientamento: il loro mondo materiale e sociale fu distrutto. Per molti ebrei, l'ebraismo era come un menù à la carte (come il cattolicesimo per molti cattolici). Si aderiva solo ad alcuni riti essenziali: la circoncisione, il matrimonio religioso, e la sepoltura. Alcuni si astenevano dal mangiare la carne di maiale, ma mangiavano ostriche, alcuni non fumavano il sabato, ma guidavano l'auto. Gli ebrei laici guardavano quelli religiosi con disprezzo. Gli ebrei "moderni" consideravano lo yiddish, oggi quasi sparito, una lingua barbara proprio come molti francesi e italiani per il patois e i dialetti. Le divisioni, anche tra gli ortodossi, erano a volte profonde. Wasserstein cita le maledizioni indirizzate da un rabbino ultra-ortodosso (chassidico) ad altri rabbini ultra-ortodossi: «Gli Agudisti, che il loro nome sia cancellato per sempre... sono peggio di quei cani di sionisti». Un ulteriore esempio della tesi freudiana sul narcisismo delle piccole differenze. I sionisti erano una minoranza ovunque e profondamente divisi tra fazioni rivali: al centro c'era quella filo-britannica guidata da Chaim Weizmann, a sinistra c'erano quelli del partito Poale Zion (dal quale nacque, in Israele, il partito Mapam) e a destra i sionisti cosiddetti revisionisti di Vladimir Jabotinskij (la cui eredità è portata avanti in Israele da Benjamin Netanyahu). In Polonia il Bund (l'Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) denunciava regolarmente i sionisti e il loro sogno di «uno Stato ebraico costruito sulla sabbia con l'aiuto dei cannoni inglesi». Sia i sionisti che gli antisemiti ritenevano che l'assimilazione era ormai impossibile. L'antisemitismo era, allora come oggi, il carburante del sionismo. Non c'era posto per gli ebrei nella nostra società, dichiaravano gli antisemiti, devono dunque essere espulsi o comunque distrutti. I sionisti dichiaravano che l'antisemitismo non sarebbe mai sparito. L'unico modo per salvarsi era quello di diventare come tutti: avere la propria nazione e il proprio Stato. I sionisti erano virulenti verso gli ebrei che volevano assimilarsi: «Vivono come vermi cresciuti nella grondaia e che quando cadono nella fogna si acclimatizzano subito». Non sorprende che nell'Austria annessa alla Germania nel 1938 le SS furono assistite dai sionisti per organizzare la partenza degli ebrei verso la Palestina. Non è vero, spiega Wasserstein, che gli ebrei d'Europa aspettavano passivamente lo scatenarsi della Shoah. Al contrario, cercavano di affrontare la minaccia in tutti i modi possibili: alcuni con l'assimilazione, altri con l'emigrazione, altri ancora con la conversione; alcuni si chiusero in un ghetto culturale, alcuni divennero comunisti, o socialisti o liberali, alcuni perfino fascisti. Tutti cercavano di essere protagonisti della propria storia, senza mai essere abbastanza forti per diventare padroni del proprio destino.

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