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La Stampa Rassegna Stampa
17.03.2013 Iraq dieci anni dopo
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 17 marzo 2013
Pagina: 16
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Dieci anni dopo l'Iraq l'America resta divisa-Ci sono stati numerosi errori ma abbiamo dimostrato che i dittatori possono perdere»

Iraq dieci anni dopo. Sulla STAMPA di oggi, 17/03/2013, a pag. 16/17, due servizi di Maurizio Molinari che analizzano successi e fallimenti dell'amministrazione americana.

Dieci anni dopo l'Iraq l'America resta divisa

Alle 5,34 del mattino del 20 marzo 2003, ora di Baghdad, ebbe inizio l’operazione militare «Iraqi Freedom» ordinata dal presidente americano George W. Bush per rovesciare il regime di Saddam Hussein. La guerra sarebbe durata 8 anni, 8 mesi e 3 settimane prima del completamento del ritiro delle truppe ordinato il 18 dicembre 2011 dal nuovo presidente, Barack Obama. A dieci anni dall’attacco condotto dalle forze della coalizione guidate dal generale Tommy Franks l’America si confronta con un conflitto che l’ha divisa sommando successi militari, errori di intelligence, danni morali, ingenti costi economici e risultati strategici ancora in bilico. I successi militari sono due. Primo: la campagna-lampo di Franks riuscita a rovesciare in appena 21 giorni il dittatore più potente e spietato del Medio Oriente con l’impiego della metà delle forze adoperate nella Guerra del Golfo del 1991 per liberare il Kuwait. Secondo: i rinforzi inviati a partire dal 2007, ed affidati al generale David Petraeus, riusciti a sconfiggere l’insurrezione jihadista nel Triangolo Sunnita grazie ad una tattica fatta di truppe speciali, intelligence e accordi con le tribù locali che è stata poi ripetuta in Afghanistan. Ma tali risultati sono stati offuscati dagli errori che li hanno accompagnati: l’amministrazione Bush giustificò l’attacco con informazioni di intelligence sull’esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa che non sono mai state trovate, errò nel ritenere che le operazioni militari si sarebbero concluse velocemente facendosi cogliere di sorpresa dall’insurrezione armata seguita alla caduta di Saddam e dovette fare i conti con lo scandalo degli abusi sui detenuti nel carcere di Abu Ghraib che ancora pesa sull’immagine degli Stati Uniti. Il tutto al prezzo di oltre 110 mila vittime secondo una stima dell’Associated Press - inclusi 4805 soldati della coalizione di cui 4487 americani, a cui bisogna aggiungere circa 10 mila feriti gravi, in gran parte amputati da esplosioni di ordigni della guerriglia.

I costi economici sono documentati dal rapporto pubblicato dal Congresso in coincidenza con il decennale di «Iraqi Freedom» curato da Stuart Bowen, ispettore generale della ricostruzione dell’Iraq, nel quale si afferma che gli Stati Uniti hanno speso oltre 60 miliardi di dollari - ovvero una media di 15 milioni al giorno - per rimettere in piedi il Paese con risultati assai parziali visto che solo una piccola minoranza dei 31 milioni di abitanti può oggi contare su sicurezza, elettricità e acqua potabile. Bowen stima in circa 5 miliardi di dollari il totale del denaro pubblico andato «completamente perso» a causa di malagestione e corruzione, enumerando alcuni palesi fallimenti della ricostruzione: dalla mega-prigione nella provincia di Diyala mai completata alla centrale di purificazione delle acque di Fallujah costata 108 milioni di dollari per servire appena 9000 case fino al fallito ponte alFatah sul Tigri, alle frodi gestite da ufficiali dell’Us Army ed ai contratti eccessivamente generosi per ditte private americane dimostratesi inefficienti.

Includendo tutti i costi, militari e diplomatici, gli Stati Uniti hanno speso per il Congressional Budget Office circa 767 miliardi di dollari in Iraq e ciò che resta oggi a Baghdad è la più grande ambasciata Usa nel mondo impegnata a gestire rapporti difficili con il governo di Nuri al-Maliki, leader di una coalizione guidata dai partiti sciiti assai più sensibili alle scelte dell’Iran che agli interessi di Washington. Senza contare il precario equilibrio fra governo sciita e regioni autonome sunnite e curde, incentrato sui dissidi sui proventi del greggio.

L’eredità di «Iraqi Freedom» continua a dividere l’America come dimostra il contrasto di opinioni fra Richard Haass, presidente del «Council on Foreign Relations» di New York, che la definisce una «guerra voluta, condotta assai male» e l’ex presidente George W. Bush convinto che «il giudizio della Storia rivaluterà le scelte compiute». Barack Obama, contrario all’attacco dell’Iraq sin da quando era senatore nel 2002, dall’indomani dell’arrivo alla Casa Bianca ha cercato di sanare la ferita irachena rendendo omaggio alle truppe, portando a termine il ritiro e chiedendo ai connazionali di «accogliere con onore i veterani» per evitare di ripetere le asprezze che seguirono la guerra in Vietnam.

''Ci sono stati numerosi errori ma abbiamo dimostrato che i dittatori possono perdere''
Intervista con Dov Zakheim


Dov Zakheim

«Furono momenti carichi di tensione e commettemmo degli errori ma la caduta di Saddam Hussein ha segnato l'inizio dei cambiamenti in atto in Medio Oriente, anche se l'ironia della sorte vuole che oggi Baghdad sia più vicina a Teheran che a Washington». A parlare della genesi e delle conseguenze di «Iraq Freedom» è Dov Zakheim, che il 20 marzo

2003 era il braccio destro di Donald Rumsfeld al Pentagono, con l’incarico di sottosegretario alla Difesa che gli comportò la responsabilità di trovare truppe e risorse per la coalizione.

Che cosa ricorda del giorno in cui partì l’attacco all’Iraq?

«C’era grande tensione al Pentagono come avviene sempre quando si inizia un'operazione militare. Avevo vissuto un’atmosfera simile quando, con Ronald Reagan presidente, attaccammo Granada così come nel 2001 per l'intervento contro i taleban in Afghanistan».

Quale era l'intento iniziale?

«Rovesciare Saddam Hussein ed eliminare le sue armi di distruzione di massa che, in quel momento, tutti ritenevano esistessero davvero anche se poi abbiamo scoperto l'esatto contrario».

Fu quello l'errore maggiore?

«Non lo definirei un errore perché, come detto, i servizi di intelligence di tutte le maggiori potenze erano convinti dell'esistenza di queste armi. L'errore più serio fu invece un altro: pensare che avremmo rovesciato Saddam e lasciato in fretta l’Iraq. Portò ad un corto circuito fra l’attesa per una veloce conclusione delle operazioni e la pianificazione di una presenza che invece si allungava continuamente nel tempo. All’epoca avevo anche la responsabilità del Bilancio, mi resi conto di quanto pesò quell'errore di valutazione così come gli sbagli commessi nell’assegnare contratti che fecero disperdere una quantità notevole di fondi. Avremmo fatto meglio a impegnarli da subito in Afghanistan, dove invece le operazioni militari risentirono della scelta di intervenire in Iraq. A conti fatti si può affermare che il prezzo più alto dell’errore di impostazione di Iraqi Freedom lo pagò la guerra in Afghanistan».

L’altro suo compito fu contribuire a formare la coalizione. Quale furono i maggiori ostacoli che si trovò davanti?

«L’opposizione di alleati tradizionali come la Francia, la Germania e il Canada mentre la Russia non fu certo una sorpresa dati i suoi stretti legami con Saddam. Ma formare la coalizione si rivelò più facile del previsto. Ricordo ad esempio un viaggio fatto in America Latina con un parigrado spagnolo per cercare soldati nelle diverse capitali: il maggiore problema non era trovare truppe ma il modo per trasportarle in Iraq. Ci aiutarono gli ucraini, fornendo aerei da trasporto ex sovietici. L’Italia, partecipando alle operazioni dopo la caduta di Saddam, ci aiutò molto per la qualità che distingue i vostri soldati».

Qual è stata la conseguenza più significativa della caduta di Saddam?

«Si è trattato del primo dittatore laico rovesciato. E’ stato un momento di svolta per il Medio Oriente. Non credo si possa affermare che le rivolte contro Ben Alì e Mubarak siano state ispirate dalla caduta di Saddam, per via del distacco di tempo trascorso, ma certamente il crollo della dittatura araba considerata la più potente e sanguinosa ha mutato il clima nei Paesi arabi. Facendo apparire i dittatori meno invincibili».

Lei è vicepresidente di Booz Allen Hamilton ed è appena tornato dal Kurdistan. Che situazione c’è a dieci anni dall'attacco?

«Il maggiore problema dell’Iraq viene da un premier come Nuri al-Maliki che si comporta quasi da dittatore. L’unico limite che ha è la mancanza di sufficienti forze militari. Al-Maliki volta la testa dall’altra parte quando l’Iran sfrutta l’Iraq per far affluire rifornimenti di armi alle forze di Assad. E’ sotto l’influenza di Teheran e ciò nasce dall’errore commesso dall'amministrazione Obama di non conservare basi militari in Iraq dopo il ritiro delle truppe».

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