Sulla STAMPA di oggi, 16/03/2013, a pag.1/18, con il titolo '' A Timbuctù, la città dei fantasmi'', il reportage di Domenico Quirico.
in alto Domenico Quirico
INVIATO A TIMBUCTU'- Sulla piroga, io e Baba, mastichiamo la nostra noce di colà, piano, sorbendo il gusto amaro, che dà forza. Ne abbiamo bisogno. Forse è l’ultima volta che vengo a Timbuctù; per accompagnare lui, che torna dopo nove mesi. A Timbuctù liberata, finalmente, Timbuctù senza più islamisti, Timbuctù dove la gente può ascoltare, di nuovo, avidamente, le notizie alla radio, fa uscire dai nascondigli le chitarre, ove le ragazze sfilano, di nuovo, con le movenze dolci e ondeggianti, sacerdotesse della propria bellezza, senza più paura delle frustate. Era fuggito, il mio amico Baba, per questa marcia guerra: un giorno un tuareg, i primi a occupare la città - gli altri, i salafiti, Al Qaeda, sono arrivati dopo -, gli ha detto: ha un bel corpo tua moglie… La sera sono andati da un vicino, hanno violentato la sua donna, lì, in casa, tenendolo sotto la minaccia dei fucili. Via allora, a Bamako, senza guardarsi indietro, a fare la vita agra del rifugiato.
Baba parla sempre lentamente, sembra che le parole siano un po’ troppo grandi e lui scuote un po’ la testa per farle cadere dalla bocca. Il rifugiato Baba con i suoi 5 figli non ha mai assaggiato gli aiuti che la comunità internazionali spedisce a questo Paese disgraziato: li ha visti, sì, la farina e il miglio «doni del popolo americano», ma in vendita al mercato della capitale. Dove li portano quelli che dovrebbero distribuirli…
Baba, indurito dalla fatica, paziente e al momento buono animoso, è diventato mio amico quando mi sono accorto che sulle piste nel deserto suonava il clacson non soltanto per tener lontane le capre e i cammelli, ma anche se una tromba d’aria zeppa di polvere incrociava il cammino: è un qualcosa che vive… Non è un tuareg, non ci sono più tuareg a Timbuctù, fuggiti o morti. È un sonrai, nero del Nord, un suo antenato ordinò un giorno di costruire mille piroghe per dominare l’oceano.
Il cooperante divenuto jihadista Saliamo a Timbuctù in piroga, sul Niger. Sfuggiti a un agguato sulla pista che tutti dicevano libera e sicura. A Lerè, invece, inizia il dominio dei «banditi». Non sono altro che gli islamisti e i ribelli: ritiratisi dalle città per l’avanzata dei francesi, si sono dispersi nel deserto, attaccano e aspettano. Non leggono, loro, i bollettini dell’Armée francese, e i nostri giornali, secondo cui sono «ormai annientati», e tutto è finito. La collina di Farash è il covo. Dicono sia con loro Abu Jalil, il francese. È un vecchio ex cooperante, ultracinquantenne, che è passato al jihad. È stato a Timbuctù con la giovane moglie marocchina, incinta, e i quattro figli. Faceva funzionare la centrale elettrica.
Ha litigato con gli altri islamisti, un giorno ha gettato via il fucile urlando: «Questo non è il Jihad». Quando è partito per la battaglia di Kona, i suoi compagni pensavano sarebbe morto; golosi, hanno portato via la moglie per sposarsela. Niente, l’uomo è di ferro, è tornato. Allora l’hanno «dimenticato» in città, ritirandosi senza dirgli nulla. Non c’erano più auto, moto, nulla. Ha fatto ripartire l’auto di Abu Zeid, il feroce emiro di al Qaeda, rimasta in panne. E li ha raggiunti. Strana guerra, questa: dove i cattivi si chiamano «il guercio», «il macellaio», «il trafficante». Si entra tra i «buoni» per caso, come il colonnello Gamou, il solo capo tuareg che non si è unito alla ribellione e si batte con i francesi. Perché la moglie è fuggita con il capo dei ribelli e cerca vendetta.
Attaccano, sequestrano, sgozzano, dunque, in pieno giorno, sulla pista per Timbuctù. Placidamente. Sulla strada vedette con i telefonini annunciano le prede più ghiotte: una jeep quasi nuova, per esempio, o meglio ancora un «toubab», un bianco. All’ultimo posto dell’esercito, dopo Diabalì, un giovane tenente allarga le braccia: «Le città del Nord le ha riconquistate la politica, non noi. Tutto il resto, ripulire le strade e il deserto, è ancora da fare… Dommage». Ci sono tre autobus decrepiti strapieni di derelitti con le loro povere cose, le capre legate sul tetto, vogliono passare come noi. Si fa una colletta, per offrire 300 mila franchi maliani, pagare ai soldati «il disturbo» di scortarci almeno a Leré. Rifiutano, hanno paura.
I soldati maliani restano barricati nei presidi, hanno ripreso traffici e esazioni sui civili, il loro vero mestiere: che in prima linea vadano i francesi e gli alleati ciadiani! Qualcuno rinuncia; con gli altri si decide di tentare. Avanziamo per ultimi, dietro la polvere di un autobus che hanno allegramente ridipinto con la scritta «Air France» e un aereo in atterraggio. Strepito di motori stanchi, traballare fragoroso di carri, la pista è consumata e piena di buche. C’è angoscia, ma non paura, finalmente ci districhiamo da questa guerra facile, facile come un’ossessione, facile come il fondo che non fa mai resistenza, che cede ai nostri sforzi e poi frana e ci inghiotte lentamente. Pochi chilometri, Baba ha appena detto: «Senti il vento, il deserto si sveglia dopo l’inverno…». Poi crocchiano i mitra. Si deve ripiegare.
Check-point e bambini con i mitra Stamattina la guerra ci ha fatto una grazia. Siamo vivi. La chiatta che porta le auto, quella, è il business del sindaco di Timbuctù: vuole 50 mila franchi per attraversare, un’enormità, prima ne bastavano 15 mila: il carburante, dice, per la guerra è più caro. Non resta che la piroga, dunque, graffiata dagli attracchi. Scivola sul fiume immenso, in uno sciabordio da fiumiciattolo, tra una immobilità chiara e un ristagno azzurro, come se non accadesse niente. Un ragazzo affonda lunghe bracciate con l’unico remo dalla pala larga, a grandi strappi, come una gondola.
La città è buia, senza luce per giorni interi, l’acqua arriva per poche ore. Nessuna autorità civile, solo i soldati: brutali e corrotti. Ovunque rovine, un popolo affamato e dolente, con tutte le violenze di antichissime miserie, corruzioni e furfanterie. Prima della porta, i rottami di un distributore Total. Era il posto di blocco delle milizie islamiche. Bambini di dieci, dodici anni, con enormi kalashnikov, lo presidiavano, allievi delle scuole coraniche portati, a decine, alla guerra dal loro maestro fanatico. Fermavano tutti, salivano sui motorini e sui tetti delle auto: dai, facci fare un giretto… , gridando di gioia. Pastorelli, arrivati dal deserto, non avevamo mai visto queste meraviglie. Utilizzavano le pareti del distributore per gli esercizi di scrittura, usando pezzi di carbone: «Il jihad è la strada di Dio...», ma le parole sono zeppe di errori.
Baba non la riconosce, la sua città santa, polverizzata dall’artiglieria dei secoli, vi arriva come vi camminerebbe un viaggiatore di passaggio. Gli eventi li hanno consumati, mi confessa, siamo diventati accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremo, forse, vivere ancora qui: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, sono rozzi tristi superficiali. Io penso che siano perduti.
La casa, vicino alla grande moschea bruna, per fortuna, è intatta: solo una porta divelta. Ma attorno i negozi degli arabi e dei tuareg: saccheggiati in lunghe file. Questa città è morta, non del tutto, ma già popolata di fantasmi, questa città da cui migliaia di uomini sono fuggiti, come da Gomorra, senza mai voltarsi indietro. Una catastrofe celeste l’ha colpita e lei aspetta, agghindata di sole, come una vittima propiziatrice. La catastrofe sta lì, sopra le nostre teste. Mosche. Porte sbarrate, le splendide porte di Timbuctù, armate di piastre come corazze antiche. Un polverio bianco, a perdita d’occhio, e fumi leggeri che sporcano il cielo. Io e Baba, con grandi pietre che ci circondano, con le loro ombre e il loro silenzio minerale. Mito eternizzato nel suo sogno e nella sua polvere.
Il mausoleo in macerie Al centro studi «Ahmed Baba», dove sono conservati gli antichi manoscritti, la saggezza secolare di 180 scuole coraniche e di un esercito di sapienti, tutto è vuoto e silenzio. L’acqua marcisce nella fontana della biblioteca, costata sei milioni di dollari. In un corridoio l’unico custode rimasto, tignoso, diffidente, ci mostra il luogo: un grande mucchio di cenere, il vento disperde frammenti anneriti di saggezza, bruciati dagli islamisti prima di fuggire. Accanto, ancora abbandonate, le custodie, molte in pelle di pecora, di cammello. Mahmaud Dadab, uno dei più grandi filologi e grafologi dell’Islam, ci accoglie a casa: con dignità si avvolge dei suoi veli. Faccia rigida e implacabile, al primo aspetto ha la bellezza dei profeti. «Credono che nei manoscritti ci siano empie formule magiche, invece i segni, le parole che sembrano non avere senso, aiutano l’allievo a imparare. Gli uomini sono i primi nemici dei manoscritti: quando non si capisce una cosa, si diventa nemico di quella cosa. I danni causati non sono enormi, ma anche una sola riga, una sola parola perduta è importante, diventiamo ciechi».
Al di sopra dei muri del cimitero dune si gonfiano, urtano, nella sabbia invadente ed eterna, come prore di coccio, non lapidi ma grandi anfore di terracotta. Del mausoleo di Sidi Mahmud, uno dei 333 santi della città, resta un mucchio di pietre chiare su cui si è accanito il piccone dei fanatici. Ogni venerdì si copriva di doni e sacrifici, contro un malocchio, per raddrizzare un inciampo della vita, da secoli. Volevano che tutta la città assistesse alla distruzione, ma quel giorno erano soli.
Il palazzo di Gheddafi, dove alloggiavano i capi di Al Qaeda, l’ha smontato come un giocattolo una immensa bomba francese. Il ferro è liquefatto, piastrelle arredi tutto è in briciole, e quel che era ancora utilizzabile saccheggiato. È impossibile persino immaginarne il fasto. Ecco: come Timbuctù, più leggenda che verità, viveva a fior di terra e quando è morto non aveva abbastanza peso per scendere sotto terra. Come la città sarà sepolto dal suo peso, si disseccherà e si trasformerà in polvere anonima, sotto il sole.
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