La teocrazia iraniana contro Hollywood per il film 'Argo' analisi di Stefano Magni
Testata: Informazione Corretta Data: 14 marzo 2013 Pagina: 1 Autore: Stefano Magni Titolo: «La teocrazia iraniana contro Hollywood per il film 'Argo'»
" La teocrazia iraniana contro Hollywood per il film 'Argo' " analisi di Stefano Magni
Stefano Magni
Mahmoud Ahmadinejad
Gli Stati Uniti hanno incassato, se non proprio una fatwa, qualcosa che ci si avvicina molto: il governo della Repubblica Islamica Iraniana ha denunciato Hollywood. Non avete capito male. Proprio tutta Hollywood, colpevole di aver prodotto un film come “Argo” e poi di avergli assegnato tre premi Oscar (fra cui quello alla miglior pellicola). “Argo”, per chi non lo ha ancora visto, è uno splendido film storico, ricco di azione mozzafiato come se fosse prodotto della fantasia di Ben Affleck (che è produttore, regista e attore protagonista), ma è tutto vero e ben ricostruito. E’ una storia ambientata a Teheran, durante la crisi degli ostaggi nell’ambasciata Usa del 1979-1981. Quella che fu una delle peggiori sconfitte per l’amministrazione di Jimmy Carter, fu anche il momento di rottura definitiva fra l’Iran e gli Stati Uniti, fra l’Islam fondamentalista e l’Occidente democratico. In questo crocevia storico, Ben Affleck ci mostra una storia di vittoria statunitense e di beffa all’Iran: come un unico agente della Cia, specializzato in operazioni di esfiltrazione, sia riuscito a ingannare, con una messinscena hollywoodiana, tutto l’apparato di controllo dell’Iran rivoluzionario, per portare a casa sei cittadini americani. “Argo” ci mostra un Iran totalitario senza censure: i cadaveri dei condannati all’impiccagione che pendono dalle gru a lungo, in pubblico, a mo’ di esempio; le folle di fanatici islamici urlanti; il terrore di essere occidentale e intrappolato in un Paese divenuto alieno e ostile; il lucido zelo omicida dei Pasdaran. Teheran non lo ha digerito. In particolar modo non ha accettato che a insignire “Argo” dell’Oscar più importante sia stata direttamente Michelle Obama, la first lady, in diretta dalla Casa Bianca. Una scelta incomprensibile, che avviene per la prima volta nella storia degli Oscar. Comprensibilmente (questa volta), l’Iran l’ha considerato un atto politico. Possono essere usate varie chiavi di lettura per capire questo insolito avvenimento. Prima di tutto dobbiamo considerare quale sia il significato politico di “Argo”. Ben Affleck ha sdoganato la figura di Jimmy Carter. Il presidente, che pure, nel lungometraggio, non si vede mai, è il vero protagonista. Lo sconfitto dalla storia appare come l’eroe senza macchia: autorizza il salvataggio di sei suoi cittadini, vince e non se ne prende il merito, per non compromettere la vita di chi era ancora in ostaggio nelle mani degli iraniani. Jimmy Carter è il maestro politico e il principale protettore di Barack Obama. Il presidente (come ha dimostrato la clamorosa premiazione dalla Casa Bianca) non è rimasto insensibile all’omaggio. Jimmy Carter viene ricordato come il presidente dell’appeasement. Non si oppose alla presa del potere dei khomeinisti (che inizialmente erano mischiati ai laici) a spese del suo alleato locale, lo scià Reza Pahlavi. Non reagì alla presa degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran. Così come Obama non ha ancora reagito all’uccisione del suo ambasciatore in Libia, dopo la rivoluzione (da lui sostenuta) contro l’ex dittatore Gheddafi. Carter non comprese la natura rivoluzionaria e totalitaria del nuovo regime finché non fu troppo tardi. Così come, in questi anni, Obama sottovaluta volutamente la portata rivoluzionaria dei Fratelli Musulmani in Tunisia, Libia ed Egitto. Il film di Ben Affleck, nella sua introduzione, riassume la storia dell’Iran con gli occhi dei Democratici di allora e di oggi (e dunque anche di Jimmy Carter e di Barack Obama). Attribuisce agli americani e ai britannici il rovesciamento del governo di Mossadeq, ma dimentica la natura autoritaria e filo-comunista di quest’ultimo. E, soprattutto, dimentica che, fra le forze politiche che ne causarono la caduta, vi fossero soprattutto gli ayatollah. Che, essendo conservatori, non tolleravano un socialista filo-sovietico al governo. Gli americani, tuttora, si ritrovano nemici degli stessi ayatollah che combatterono e vinsero contro Mossadeq. Affleck attribuisce la colpa della violenza islamica al regime autoritario di Reza Pahlavi e sottolinea (tante volte, nel corso del film) la responsabilità americana nell’averlo sostenuto prima della rivoluzione e poi ospitato dopo la sua caduta. Il produttore-regista-attore, come abbiamo già visto, non ha affatto un occhio benevolo nei confronti del regime degli ayatollah. Ma cerca costantemente di ricordarci “ce li siamo meritati”. Alla fine, commette lo stesso errore storico di Carter. Cerca l’appeasement, prova l’autoflagellazione e si becca un attacco: la denuncia a Hollywood riproduce, in piccolo (e in ridicolo) la stessa dinamica della presa degli ostaggi. E tra l’altro l’Iran, quando colpisce, non fa distinguo. Non attacca il signor Affleck. Attacca Hollywood nel suo complesso, quale simbolo del “Grande Satana” americano. E’ una denuncia collettiva che riguarda anche Ridley Scott, regista hollywoodiano che, da otto anni a questa parte, si è messo in mente di sdoganare l’Islam. Prima confezionando un kolossal come “Le Crociate”, in cui il Feroce Saladino appare un sovrano tollerante quanto un filosofo illuminista. Poi realizzando “Nessuna Verità”, dove cerca di dimostrare quanto gli arabi siano più brillanti degli americani in fatto di lotta al terrorismo. La Hollywood di questi ultimi anni è la patria dei film pacifisti contro la guerra in Iraq e la lotta ad Al Qaeda. Mai si sono visti tanti film ostili allo sforzo bellico statunitense come in questo periodo: “Redacted” (Brian del Palma), “Nella Valle di Elah” (Paul Haggis), “Rendition” (Gavin Hood, con due premi Oscar nel cast: Reese Witherspoon e Maryl Streep), “Leoni per Agnelli” (Robert Redford), il rifacimento di “The Manchurian Candidate” (Jonathan Demme), per non dimenticare “September 11”, la raccolta di 11 cortometraggi d’autore sull’attacco dell’11 settembre, uno più antiamericano dell’altro. Oliver Stone, regista di culto per i progressisti americani, sta preparando la sua opera sull’Iran di Ahmadinejad. Non se ne sa ancora molto, se non che il figlio Sean, recatosi per un sopralluogo nella Repubblica Islamica, è rimasto folgorato sulla via di Teheran e si è convertito all’Islam. Se non altro per dispensarci perle di saggezza, quali: “Ahmadinejad è un incompreso” e anche “la sua negazione dell’Olocausto è stata mal interpretata. Lui vuol solo dire che l’Olocausto sia irrilevante nelle politiche di oggi”. Dopo Hanoi Jane (intesa come: Jane Fonda, fan del regime comunista vietnamita), avremo probabilmente un Teheran Sean. Ed è proprio questa la Hollywood che il regime islamico condanna. E’ l’emblema di quanto l’attuale amministrazione, con la sua ideologia progressista, si dibatta nel vasto mondo islamico senza avere gli strumenti per capirlo e senza aver una chiara strategia in mente: “appoggiamo o no le loro rivoluzioni? Se noi stessi ammettiamo che la loro miseria è colpa nostra, allora perché ci odiano ancora?”. http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90