Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/03/2013, a pag. 13, l'articolo di Marta Ottaviani dal titolo " La rivoluzione di Erdogan: più velo e meno libertà" e la sua intervista al dissidente Rakip Zarakoglu dal titolo " La laicità non è a rischio, la democrazia invece sì ".
Quando le titolazioni sono migliori degli articoli, questo è uno di quei casi.
I due pezzi di Marta Ottaviani, infatti, non potendo nascondere l'islamizzazione della Turchia messa in atto da Recep Erdogan, cercano di minimizzarne la portata. Questo si vede dalla prima riga della cronaca, che recita : "Più che l’islamizzazione una «rivoluzione culturale». ".Reinserimento del velo, processi agli scrittori, limitazioni ai laici, tutto sotto alla voce 'Rivoluzione culturale'?
Ecco i pezzi:
" La rivoluzione di Erdogan: più velo e meno libertà "
Marta Ottaviani Recep Erdogan con la moglie
Più che l’islamizzazione una «rivoluzione culturale». Piaccia o no, dal novembre del 2002, data in cui l’Akp, il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo, prese il potere per la prima volta, la Turchia è cambiata. Per molti sono aumentati gli standard democratici e il benessere. L’Akp continua a essere rieletto con percentuali plebiscitarie, ma c’è chi teme per la tenuta della libertà. Su una cosa tutti concordano: l’artefice del cambiamento è Recep Tayyip Erdogan. Il premier turco rappresenta un vero e proprio punto di non ritorno nella vita politica dalla nascita della Repubblica turca, tanto che ormai quasi tutti lo considerano l’Ataturk (fondatore della Turchia moderna nel 1923 nrd) con connotati religiosi.
Di carattere forte, secondo molto autoritario, Erdogan in questi 10 anni è finito più volte sui giornali con l’accusa di voler islamizzare il Paese, utilizzando l’ingresso in Unione Europea solo per indebolire lo strapotere dei militari, da sempre strenui difensori dello Stato moderno e laico fondato da Atatürk. Già durante il suo mandato da sindaco di Istanbul, dal 1994 al 1998, il futuro premier aveva fatto parlare di sé per aver criticato i dipendenti dal comune che servivano bevande alcoliche, e perché non stringeva la mano alle donne. La sua nomina a primo ministro, avvenuta ufficialmente nel 2003, lo ha portato a più miti consigli, ma per poco. È dello stesso anno il tentativo del primo governo Erdogan di fare entrare gli studenti delle imam-hatip (scuole vocazionali islamiche) all’università. La legge venne bloccata dall’intervento dell’allora presidente Ahmet Necdet Sezer, ultralaico e gradito all’establishment militare.
Nel 2008 ritorna la tensione sociale per una legge, approvata in parlamento grazie all’aiuto dei nazionalisti del Mhp, che consente il velo islamico nelle università, già negato da una sentenza del 1989 della Corte Costituzionale. Sarà proprio l’Alta Corte a bocciare il provvedimento, ritenendolo contrario ai principi laici dello Stato. Oggi il divieto viene ampiamente disatteso, anche per una circolare dello Yok, la Conferenza dei rettori, del 2010 che invitava i responsabili degli atenei a non fare differenze basate sull’abbigliamento.
Le elezioni del 2011 hanno segnato un punto di svolta nella politica del premier, che al terzo consenso elettorale sempre maggiore, ha modificato la sua strategia comunicativa, accentuandone le componenti conservatrici. Nel 2012 viene approvata la riforma scolastica che consente ai genitori di inviare i bambini alle scuola vocazionali già dall’età di 10 anni. In alcuni quartieri di Istanbul scoppia la polemica per alcuni studenti trovatisi iscritti d’ufficio alle imam-hatip e non in istituti laici come avevano richiesto, per mancanza di posti. Il premier dice: «alleveremo generazioni di giovani devoti».
Gli appelli di Erdogan alle donne turche a fare almeno tre figli sono all’ordine del giorno. Dietro le sue parole si cela anche il timore per il peso demografico della c o m p o n e n t e curda, concentrata nel SudEst del Paese e dove non hanno problemi di natalità. Ma parallelamente ha portato avanti una campagna serrata contro l’aborto, minacciando di cambiare la legge, che attualmente fissa l’interruzione di gravidanza a 10 settimane, e una vera e propria «crociata» contro una telenovela, campione di ascolti in Turchia e all’estero, rea di aver ritratto il sultano Solimano il magnifico come troppo dedito all’alcol e troppo succubo delle donne.
Infine, in questi anni, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan è finita più volte nell’occhio del ciclone per la questione della libertà di stampa e pressioni sui media. Al momento oltre 70 giornalisti si trovano in carcere con l’accusa di associazione a organizzazione terroristica. Nei giorni scorsi il quotidiano Milliyet ha sospeso per due settimane Can Dundar e Hasan Cemal, due fra le firme più note del giornalismo turco, che avevano messo in luce i retroscena sulla trattativa segreta fra Stato turco e Pkk, il partito dei separatisti curdi, il che aveva profondamente irritato il premier.
" La laicità non è a rischio, la democrazia invece sì "
Rakip Zarakoglu
È uno degli intellettuali più di rottura della Turchia. Ha pubblicato libri proibiti sul genocidio armeno e sulla questione curda e in 40 anni lo hanno messo sotto processo 45 volte. Lo anno scorso è finito in carcere con l’accusa di avere legami con il Kck, l’Unione delle comunità curde, un’organizzazione separatista e terrorista. Il suo arresto ha provocato indignazione all’estero e un gruppo di intellettuali svedesi lo ha proposto al Nobel per la pace. Mentre aspetta l’ennesima sentenza, Rakip Zarakoglu, 65 anni, spiega la Turchia ai tempi di Erdogan.
Lei nel 2006 definì il Partito islamicomoderato un’alternativa allo strapotere dei militari. La pensa ancora così?
«Il 2006 era un anno molto particolare. C’era una vera e propria strategia della tensione in atto. Il governo Erdogan secondo me sapeva ma non fece nulla per impedire alcuni fatti di sangue come l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, perché aveva bisogno di prove e perché aveva bisogno di un maggior sostegno da parte dell’Europa. Dopo la vittoria schiacciante alle elezioni del 2007 hanno acquisito maggiore sicurezza, e hanno indebolito i militari, il problema è che il sistema è rimasto autoritario».
Orhan Pamuk ha accolto positivamente i processi contro le alte cariche delle Forze Armate, ma ha anche messo in guardia il governo contro gli stessi atteggiamenti autoritari.
«Sono d’accordo. Vede, la Turchia ha sempre avuto problemi con la democrazia e c’è sempre stata una tendenza autoritaria. Non è solo un problema di ideologia, ma degli apparati controllati da chi ha il potere e adesso sono nelle mani di Erdogan, che però deve stare attento a come li gestisce».
Il potere del premier è meno illimitato di quanto sembri?
«E’ in atto un vero scontro tra Erdogan e chi fa capo a Fetullah Gulen (pensatore islamico che da anni risiede negli Usa, ndr). Si consuma anche nell’apparato dove la polizia e la magistratura sono le due componenti principali».
Concorda con chi teme che la Turchia si stia inesorabilmente islamizzando?
«No, perché la struttura sociale è fortemente laica. Concordo invece con chi vede dei rischi e dei limiti nel processo di democratizzazione».
Lei è stato arrestato sia sotto i militari sia con Erdogan, verrebbe da dire che non è cambiato molto.
«Confesso, l’ultima volta che mi hanno arrestato ci sono rimasto male. Non sono mai andato in galera per sospetto di terrorismo. Mi ha colpito, ma vista la reazione internazionale al mio arresto credo si siano resi conto dell’errore».
Per i processi contro l’organizzazione Ergenekon, accusata di golpe, e contro il Kck, accusato di terrorismo separatista, sono finite in tribunale centinaia di persone. Quanto c’è di vero?
«Entrambi sono processi politici, c’è però una differenza fondamentale. Per Ergenekon hanno arrestato gli ex vertici delle forze armate e poi hanno esteso a chi dava fastidio o chi aveva un conto da pagare. Nel processo Kck hanno arrestato per lo più gente semplice, 10 mila in tre anni. E veramente pochi di loro possono essere accusati di qualcosa».
Ha paura?
«Nel 2006 sono finito con Pamuk su una lista di persone che dovevano essere eliminate, ho passato periodi fuori dal Paese e ricevo abitualmente minacce. Certo sto attento, ma paura, quella no. Aver paura significa mettere un limite alla propria libertà».
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