Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/03/2013, a pag. 44, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Il risveglio dell'Iran è molto vicino. L'Europa non può stare alla finestra ".
Ha ragione Bernard-Henri Lévy a sostenere che l'Occidente deve appoggiare i contestatori della teocrazia iraniana, in particolare evitando l'errore clamoroso di cinque anni fa, quando nessuno Stato occidentale diede aiuto ai ribelli dell'Onda verde contro Ahmadinejad.
Manca, però, un accenno al programma nucleare degli ayatollah. Un pericolo serio per l'Occidente intero, un errore sottovalutarlo.
Ecco il pezzo:


Bernard-Henri Lévy, Mansoor Osanloo, presidente del Sindacato dei lavoratori della compagnia di autobus metropolitana di Teheran e oppositore del regime
La settimana scorsa si è verificato, in Iran, un evento di grande importanza, di cui però la stampa francese non ha stranamente detto una parola.
Mansour Osanloo, presidente del potente Sindacato dei lavoratori della compagnia di autobus metropolitana di Teheran (Sherkat-e Vahed) e, in quanto tale, il leader sindacale più noto e più rispettato del Paese, ha fatto, da un luogo tenuto segreto, una dichiarazione solenne affermando che «le condizioni per il cambiamento di regime oggi esistono in Iran». Lo ha fatto, via Skype, sul canale televisivo creato qualche mese fa a Londra da un uomo che i miei lettori conoscono bene perché lo ritengo, come più volte ho ripetuto nei miei scritti, il più serio oppositore all'estero del regime degli ayatollah: è Amir Hossein Jahanchahi, rifugiato politico, fondatore dell'Onda verde e autore di un libro L'Hitler iranien (ed. J.C. Gawsevitch, Parigi). L'informazione — la duplice informazione — è di enorme importanza per almeno tre ragioni.
In primo luogo, per la personalità di Osanloo: questo leader operaio, più volte arrestato, torturato, imprigionato, che ha trascorso buona parte degli ultimi cinque anni dietro le sbarre delle più terribili prigioni del regime, è (moralmente) il Lech Walesa iraniano; è l'uomo che (tecnicamente) ha forse il potere, lanciando un appello allo sciopero dei trasporti, di paralizzare la capitale e qualcosa di più della capitale. Secondo osservatori anglosassoni, è la prima volta che prende (politicamente) posizione in modo così radicale e deciso.
In secondo luogo, per il congiungimento che avviene, attraverso di lui e il dirigente politico in esilio Amir Hossein Jahanchahi, di elementi della società civile che, nel Paese profondo, aspirano alla libertà, con gruppi che, da Londra, Parigi o dagli Stati Uniti, preparano la transizione: cosa non si è detto su questi gruppi! Quante battute su questi intellettuali lontani dalle loro basi, che non rappresenterebbero che se stessi e sarebbero nostalgici di un Iran che non esiste più! Ebbene, è finita. E il fatto che il Walesa persiano — rappresentante dei lavoratori di un Paese dissanguato dalla dittatura; uomo di punta di un popolo che non ne può più della penuria indotta dalle sanzioni, esse stesse prodotte dall'estremismo di un regime suicida e allo stremo — scelga l'Onda verde per diffondere il proprio messaggio di speranza è un'indicazione preziosa riguardo al congiungimento di forze dell'interno e dell'esterno, senza il quale, in effetti, una rivoluzione non ha mai possibilità di successo: è quello che forse si sta compiendo a Teheran.
Infine, l'informazione è di capitale importanza perché ci rivela, all'avvicinarsi delle elezioni presidenziali di giugno, lo stato d'animo di una opposizione che ha imparato la lezione dal suo fallimento di cinque anni fa e, bisogna dirlo, ahimé, dei cinque anni successivi: abbiamo notizie di Sakineh Mohamadi Ashtiani, malgrado l'intensa campagna d'opinione in suo favore? Di Jafar Panahi, il cineasta coraggioso, cui è stato vietato di uscire dal Paese per vent'anni, e delle grandi figure dell'opposizione, molte delle quali sono ancora in prigione? Della continua repressione di tutte le manifestazioni, anche timide, di dissidenza? Occorrono meno bei discorsi e meno pii desideri; più pragmatismo, maggiore efficacia e, ancora una volta, per il congiungimento delle due resistenze esterna e interna, una strategia che faccia appello al popolo e all'insubordinazione democratica: questa sembra essere la nuova linea adottata dall'opposizione.
Non mi meraviglierei se fossero lanciate, entro il mese di giugno, direttive per indire scioperi e che queste direttive fossero seguite. Non mi meraviglierei se altri Osanloo si ribellassero e unissero la propria voce a quella del loro compagno, magari amplificandola.
So che l'Onda verde ha stretto contatti con membri del clero di Qom o di Teheran; so che ha aperto canali che le consentono di ricordare agli elementi meno compromessi dei Guardiani della Rivoluzione che in Iran mancano pochi minuti all'ora X, che resta loro poco tempo, molto poco, per evitare di conoscere la sorte di solito riservata ai sicari delle tirannidi decadute. Non mi meraviglierei nemmeno se gli appelli alla secessione fossero ascoltati e seguiti da effetto.
Quando coloro che credevano di essere tutto si uniscono a coloro che non hanno nulla, e scoprono che puntellarsi a un vecchio ordine vacillante rischia, alla fin fine, di essere per loro fatale, allora i tempi sono maturi per il cambiamento.
Siamo a questo punto. Esattamente a questo punto. Aspettare quindi e, aspettando, aiutare: è l'ordine del giorno. Infatti, nemmeno noi dobbiamo sbagliare appuntamento: al di là della sorte del popolo iraniano martire, al di là del destino di una delle più grandi civiltà del mondo oggi umiliata da barbari, è a Teheran che si decide, adesso, il futuro della democrazia nella regione, non meno che la questione della guerra e della pace nel mondo. Sarebbe mortale, per tutti noi, assistere dal balcone allo svolgersi di questa partita.
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