Daniel Libeskind critica aspramente gli architetti al servizio dei dittatori in un'intervista all’Architects Journal
Testata: La Repubblica Data: 27 febbraio 2013 Pagina: 61 Autore: Francesco Erbani Titolo: «Libeskind: troppi colleghi lavorano per i dittatori»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/02/2013, a pag. 61, l'articolo di Francesco Erbani dal titolo "Libeskind: troppi colleghi lavorano per i dittatori".
Daniel Libeskind davanti al suo progetto per Ground Zero ( a sinistra il sindaco di New York Michael Bloomberg)
L’architetto e il potere. Vecchia storia. Tanto più se il potere è un potere assoluto. La questione torna a sollevarla una delle firme di primo piano della scena internazionale, Daniel Libeskind, che in una intervista all’Architects Journal, non facendo nomi, critica aspramente quei colleghi che mettono la loro sapienza o il loro spettacolare esibizionismo al servizio di regimi autoritari. «Non mi interessa se producono torri scintillanti essendo però moralmente discutibili», dice il progettista statunitense, figlio di due ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. «Gli architetti devono assumersi la responsabilità dei loro lavori. Io non posso separare la geometria formale dal contesto di chi me l’ha commissionata e dalla moralità degli Stati in cui operano i miei committenti», aggiunge Libeskind, che già altre volte si è espresso criticamente contro i tanti suoi colleghi che hanno, per esempio, lavorato in Cina. Le domande del giornalista sono in generale sull’etica del lavoro di un architet- to e sui rapporti con i suoi clienti. E ad esse Libeskind replica che ognuno risponde per quello che fa. Talvolta, aggiunge, gli architetti possono essere usati per servire obiettivi poco apprezzabili. E questo è avvenuto con regimi fascisti o comunisti o, in genere, autoritari. Libeskind non fa riferimento a nessun architetto impegnato a lavorare in Paesi a regime dittatoriale. Ed è difficile immaginare a chi in particolare fossero indirizzati i suoi strali essendo lunga la lista di grandi protagonisti dell’architettura internazionale chiamati a realizzare interventi in paesi non democratici. Imponenti cantieri sono stati aperti in Cina nell’ultimo decennio. Se ne possono ricordare alcuni. Rem Koolhaas, per esempio, ha realizzato la strabiliante sede della China Central Television di Pechino, mentre Herzog & de Meuron hanno progettato lo Stadio nazionale che ha ospitato i giochi olimpici del 2008. Anche due architetti italiani si sono cimentati con lavori in Cina: Massimiliano Fuksas ha disegnato l’aeroporto internazionale di Shenzen e Vittorio Gregotti si è cimentato con un’intera città di fondazione, Jiangwan, una new town per 100.000 abitanti, oltre che con diversi interventi di riqualificazione a Shangai. Architetti di grido sono impegnati anche in altre regioni del mondo dove non vigono esemplari regole democratiche. Sempre Koolhaas ha progettato una città per un milione e mezzo di abitanti, 140 chilometri quadrati, nella baia di Dubai, per conto di uno dei colossi dell’immobiliare nel mondo. A Dubai lavora anche Zaha Hadid, che sta realizzando la Opus Tower. La stessa Hadid è impegnata ad Abu Dhabi con lo Sheikh Zeyed Bridge. O a Baku, capitale dell’Azerbaijan, dove costruisce il centro culturale Heydar Aliyev, centomila metri quadrati di auditorium, musei e biblioteche. Richard Rogers ha progettato la Saudi Stock Exchange di Riad, in Arabia Saudita. Mentre Norman Foster realizza centri commerciali, ristoranti, cinema in un complesso edilizio ad Astana, la capitale del Kazakistan. Altri esempi potrebbero essere fatti. E anche andando indietro nei decenni si incontrerebbero le architetture staliniste o quelle di Albert Speer in Germania, finendo al monumentalismo retorico di Marcello Piacentini, progettista caro al fascismo, a Roma. Non resta che aspettare che Libeskind indichi con precisione a chi si riferiscono le sue accuse.
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