Tra amici Amos Oz
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli Euro 14
L’opera di un grande pittore, come Claude Monet per esempio, suscita inevitabilmente sentimenti di profonda ammirazione per la cura che l’artista pone nel ritrarre con tocco sapiente e delicato anche i dettagli più minuti di un paesaggio primaverile o invernale.
Analogamente ogni nuovo libro dello scrittore israeliano Amos Oz lascia stupefatti per quella straordinaria capacità stilistica di far “vedere” al lettore, quasi si trattasse di un quadro, ciò che descrive siano moti dell’animo, paesaggi o azioni.
Oz che da bambino sognava di diventare un libro perché “i libri sopravvivono sempre in qualche modo allo sterminio”, si ribellò al mondo intellettuale del padre, uomo di destra, erudito e poliglotta e dopo la morte della madre andò a vivere all’età di quindici anni nel kibbutz Hulda, scegliendo la vita dei campi e il principio di uguaglianza.
E’ un mondo che conosce molto bene quello del kibbutz: “…una sorta di laboratorio dove tutto è concentrato, amore, morte, solitudine, nostalgia, desiderio, desolazione. E’ dal kibbutz che attinge la mia scrittura”
E al kibbutz Amos Oz ritorna con il suo ultimo libro “Tra amici” mirabilmente tradotto da Elena Loewenthal. Yekhat è un microcosmo degli anni cinquanta dove si intersecano le storie di alcuni abitanti, fra aspirazioni utopistiche, solidarietà, uguaglianza, declinate attraverso otto racconti di magistrale arte narrativa.
C’è David Dagan, uno dei fondatori e leader del kibbutz, docente di storia, “dotato di una logica stringente e di una irresistibile capacità di persuasione”, è un sessantenne capace di affascinare la giovane Edna di diciassette anni, figlia di Nahum Asherov , un uomo mite e schivo che trascorre le sue giornate in officina “la schiena curva….prendendosi cura di apparecchi che altri membri del kibbutz gli portavano da riparare: bollitori elettrici, radio, ventilatori”.
C’è Zvi Provizor uno scapolo basso di statura, incapace di accettare il minimo contatto fisico con chiunque, ha la passione di dare brutte notizie: terremoti, alluvioni, incendi sono gli unici argomenti di conversazione che destano il suo interesse.
E ancora Yotam, un ragazzo cui lo zio, arricchitosi facendo affari all’estero, offre un corso di studi in Italia ma non vuole accettare senza l’approvazione dell’assemblea del kibbutz; il piccolo Yuval preso di mira dai compagni per la sua debolezza fugge dal dormitorio dei bambini per tornare a casa fra le braccia amorevoli del padre; Osnat, la moglie abbandonata dal marito e Ariela, l’amante si ritrovano solidali in una condivisione di legami tutta al femminile; Martin, la figura più intensa del libro, è un calzolaio che vive solo, gravemente malato alle vie respiratorie. Convinto che la proprietà privata sia la madre di tutti i mali è considerato un modello morale che non ha mai saltato un giorno di lavoro e ama rammentare durante le Assemblee “in nome di cosa era stata fondata l’impresa e quali erano gli ideali originari”. Idealista convinto, prima di morire desidera insegnare ancora qualcosa ai suoi compagni: l’Esperanto perché “….quando tutta l’umanità parlerà una lingua comune, non ci saranno più guerre” né incomprensioni fra individui e popoli.
E’ una galleria di ritratti sospesa fra solitudine, passione, idealismo, paura, invidia, voglia di tenerezza quella che Oz mette in scena dove i drammi interiori non celano un costante anelito alla felicità.
Pochi scrittori conoscono e dipingono così bene quell’ideale utopico di vita in comune, una società rigida ma giusta, dove occorre costruire l’Ebreo Nuovo, forte e abbronzato, lontano dal modello di fragilità e debolezza della Diaspora; un mondo dove non esiste la proprietà privata e anche le decisioni che coinvolgono la vita privata dei singoli membri vengono assunte dal collettivo nelle assemblee.
Un mondo perfetto dunque? Nient’affatto ci assicura Amos Oz.
“Perché i padri fondatori avevano l’ambizione di cambiare la natura umana. Questo era impossibile, infantile, crudele: la natura umana va lasciata in pace. Pensavano che, in villaggi egualitari, di colpo le meschinerie, il pettegolezzo, l’invidia sarebbero spariti. I miei personaggi vivono le loro storie in questa tragicommedia. Il loro segreto è che il kibbutz è una rappresentazione dell’umanità. Una metafora”.
Grazie all’uso magistrale della parola, mai superflua, sempre perfettamente calibrata e inserita nel contesto giusto come pezzi di un puzzle che formano un affresco la cui bellezza si coglie sia nell’insieme che nel particolare, Oz accompagna il lettore dentro un universo fatto di solidarietà e condivisione ma che non è affatto esente da invidie, solitudini e passioni segrete regalandoci un libro intenso e indimenticabile.
E ancora una volta avviene quel piccolo miracolo che spesso accompagna la lettura dei libri dello scrittore israeliano: l’impossibilità di staccarsi da quelle pagine auliche e il desiderio, una volta terminate, di ritrovare il piacere della lettura ripartendo dalla prima.
Giorgia Greco