Sul SOLE24ORE-Domenica di oggi, 24/02/2013, a pag.21. con il titolo ''Quando Dio è nemico'', Giulio Busi legge il libro '' Giacobbe e l'Angelo'', introducendo molti temi biblici in rapporto alla modernità.
Rembrandt, Giacobbe e l'Angelo Giulio Busi
«Zarqa» lo chiamano gli arabi, «torrente blu». Per gli ebrei è lo Jabbok, il fiume che «scorre», si spande tra le colline di Giordania come da un vaso antichissimo e prezioso. Giacobbe si è levato di notte, quando il deserto è ancora freddo ed estraneo, e ha fatto passare i suoi al di là del guado. «Le sue due mogli, le due serve, gli undici figli»: li ha seguiti con lo sguardo, in apprensione. Sa bene che suo fratello Esaù lo minaccia da vicino. Gli ha mandato contro quattrocento uomini, e non per portargli pace. Forse vuole ucciderlo, certo pensa di razziare gli armenti. Per lo meno la famiglia è ora in salvo, mentre lui è rimasto indietro, a chiudere la carovana. Sulla riva del torrente blu scivola la notte più lunga della sua vita. Chissà da dove è arrivato. Dalle sue spalle? Dai cespugli bui come pece? O forse si è calato da una botola nel cielo di lapislazzuli? Lo ha afferrato davvero nella morsa delle sue braccia, o è solo la sua immaginazione? Suda, nonostante l'addiaccio, sta per cedere. È finita, si dice in un ultimo sprazzo di lucidità. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino all'apparire dell'alba». Eppure, quando tutto è davvero perduto, l'altro si arrende: «E l'uomo disse: Lasciami andare, perché spunta l'alba».
Com'è mai possibile? Perché non l'ha ucciso? È stata solo una messa in scena, per spaventarlo, per fargli capire qualcosa. Ma cosa?
Certo, dopo la lotta Giacobbe non sarà più lo stesso. Prima di dileguarsi, il misterioso nemico gli ha cambiato nome: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto». Allora non era uno, ma molti. L'antagonista era Dio, o un angelo mandato da Dio. Ma era anche un uomo, o meglio «gli uomini». E se fosse stato invece Esaù, a tendergli un agguato? Ma cosa c'entra, Esaù, con Dio?
La lotta di Giacobbe con l'angelo non è solo uno dei più celebri episodi biblici. È anche testo scomodo e inquietante. Perché Dio si fa avversario, nemico sbucato dall'oscurità. Terribile, implacabile, malfido. E come se non bastasse, l'Onnipotente, alla fine, si rivela debole. Persino un pastore come Giacobbe può vincerlo, o almeno resistergli abbastanza a lungo affinché giunga la luce. Ma chi viene, con la luce, un altro Dio? O si rivela il volto benevolo dell'unica divinità, ora impietosa e talaltra ricca di grazia?
Più di due millenni di esegesi ebraica non hanno saputo dare una risposta univoca a queste domande. O meglio, come sempre avviene nella tradizione giudaica, la foresta di domande su domande offre la lettura più autentica e «vera». Davanti all'enigma dello Jabbok non c'è soluzione, solo stupore. In ogni destino umano si rinnova l'angoscia notturna di Giacobbe. E talvolta, davanti all'acqua blu della solitudine, giunge, improvvisa, la luce.
Pur negli esiti diversissimi, le interpretazioni del passo sono concordi almeno su un punto. Il Dio che si manifesta nella lotta non è principio trascendente e lontano. È vicino, fin troppo a portata di mano. È l'immanenza che abita la storia, che scuote, provoca e ferisce.
In un volume recente, Giacobbe e l'angelo. Figure ebraiche alle radici della modernità europea (a cura di Emilia D'Antuono, Irene Kajon, Paola Ricci Sindoni, Lithos, Roma, pagg. 542, € 22,00) sono addirittura metafora del confronto tra Israele e la modernità. Più precisamente, tra la cultura ebraica e quella europea. Se Giacobbe impersona il retaggio biblico e rabbinico, l'angelo-Esaù è figura di un Occidente diviso tra cristianità e laicismo. Non a caso, il libro dà molto spazio al Sabbatianesimo, l'eresia nata nel Seicento attorno al sedicente messia Shabbetai Zevi, celebre per i suoi gesti dissacratori e per la promessa di portare la redenzione attraverso l'eccesso e la trasgressione. Quasi che, nell'età moderna, il divino lo si potesse scoprire solo mettendolo in discussione, violandolo, costringendolo alla resa.
Ma questo dell'antagonismo non è forse un antico talento giudaico? Pochi giorni fa – il 10 febbraio – è scomparso un memorabile «antagonista» ebreo. David Hartman, fondatore del prestigioso Shalom Hartman Institute, ha insegnato, per oltre mezzo secolo, la difficile disciplina del confronto/scontro.
Di famiglia e convinzioni ortodosse, e allo stesso tempo fiducioso in un Israele pluralista e tollerante, Hartman, nato a Brooklin e attivo a Gerusalemme dal 1971, è stato voce autorevole del tradizionalismo «liberal». Sarebbe però un errore vedere questo liberalismo come una fuga dai conflitti.
Il giudaismo di Hartman è innanzitutto affermazione di diversità, nel solco della consuetudine rabbinica alla diatriba. In una religione senza un centro d'autorità forte e indiscusso, priva di una gerarchia anche lontanamente paragonabile a quella cattolica, il fulcro dell'esperienza di fede è la possibilità di trovare una propria via, personale e inedita, all'interno del l'esperienza collettiva. In un importante testo sulla teodicea, Hartman ha espresso in maniera esemplare il suo giudaismo «di lotta». Che cos'è, la vicenda di Giacobbe e l'angelo, se non una parabola sulla misteriosa presenza del male, sull'alone buio che circonda il divino, sul paradosso di un Dio Nemico? Ebbene, per Hartman, non ha senso porre il problema del male in termini puramente teologici. Quella dell'origine della sofferenza è questione eminentemente antropologica. C'è ancora spazio – si chiede il rabbi di Gerusalemme – per un Dio personale dopo l'esperienza storica dello sterminio, e nonostante la consapevolezza, che intride l'esistenza di ciascuno, della sofferenza del giusto e dell'innocente? La risposta è quella di Giacobbe, incredulo e per sempre legato al suo alter ego divino. Blu come il torrente, minaccioso come la notte, insperato come l'alba.
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