Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 22/02/2013, a pag. 1-20, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " Fra i delusi di piazza Tahrir: così i Fratelli musulmani portano l’Egitto al disastro ".
Bernardo Valli Mohamed Morsi
Bernardo Valli si rende conto del fatto che non c'è stata nessuna primavera araba, ma solo un inverno islamista. Ne prendiamo atto con piacere.
Ma, visto il giornale importante per cui scrive, forse avrebbe dovuto rendersene conto prima.
Ecco il pezzo:
Chi cavalca la rivoluzione, almeno per ora, è la grande forza di destra del mondo arabo: una forza dominante, clericale, reazionaria e liberista: quella dei Fratelli musulmani. A favorirla nella conquista del potere è stato il movimento insurrezionale di piazza Tahrir, democratico, e per sua natura progressista.
Il quale ha abbattuto la dittatura del raìs e ha aperto il Paese a libere elezioni: e nelle urne, con la legittimità del voto, i Fratelli musulmani si sono imposti. È stato uno scippo legale. Appropriatisi della rivoluzione, gli islamisti le hanno dato altri ritmi e altri obiettivi. L’hanno cambiata. Trascinata in ritardo in piazza Tahrir dai suoi affiliati più giovani, la conservatrice confraternita dei Fratelli musulmani è stata strappata dall’opposizione, e ha cominciato sulle piazze in rivolta un aggiornamento forzato, qualcosa di simile a una rivoluzione interna all’area islamista. A sdoganare i Fratelli musulmani hanno contribuito gli americani favorevoli a una svolta democratica e convinti, a ragione, che gli islamisti moderati sarebbero stati una forza inevitabile. Ma adeguare alla pratica di governo in un Paese con forti punte di modernità e altrettante di arretratezza, e in preda a fermenti democratici, un movimento ancorato a rivelazioni religiose di un millennio e mezzo fa, esige una transizione lunga e irta di incognite. È il caso egiziano. In un primo pomeriggio, con un pallido sole invernale che si riflette sul Nilo, trascorro alcune ore al Ghezira club, nell’isola cairota di Zamalek, dove sopravvive un campo da golf lasciato in eredità dagli ufficiali britannici. Lì si riunisce da decenni la borghesia, in cui sono confusi figli o nipoti o pronipoti della classe aristocratica cancellata dagli «ufficiali liberi» che nel 1952 cacciarono re Faruk e proclamarono la repubblica. Rievoco quell’avvenimento storico perché 60 anni dopo al Ghezira club si confida nei discendenti di quegli ufficiali per contenere l’ondata islamista. A tratti ho l’impressione di essere capitato in un fortino dove la società laica borghese si riunisce nell’attesa che la cavalleria la tragga in salvo. La tazza di tè vibra nella sua mano tremante per l’emozione, quando una decana del club mi esalta gli ufficiali ai quali affida la propria sorte. Quegli stessi ufficiali che al tempo del socialismo nasseriano la spogliarono di quasi tutti i beni. Poi in parte restituitigli dai raìs più liberisti. Più che un lamento è un grido d’allarme: i Fratelli musulmani stanno occupando quella vasta, inesplorabile foresta che è l’amministrazione egiziana; preparano leggi liberticide; non è nelle prigioni o nelle loro opere caritatevoli o nell’esilio, dove hanno sempre vissuto, che hanno imparato a governare: infatti stanno conducendo il Paese al disastro economico. Le accuse non sono rivolte tanto all’azione del governo quanto alle sue intenzioni, meglio ancora alla sua natura, a quel che i suoi principi religiosi lo condurranno a fare. Serve a poco sottolineare l’assenza, per ora, di nuove leggi repressive; la libertà di espressione non seriamente compromessa, se si pensa alle censure in vigore fino a due anni fa; la non intromissione nella vita quotidiana dei privati cittadini; le scuse per le violenze della polizia da parte del governo che per la verità non sempre le evita. La reazione a queste obiezioni è immediata: si preparano, non hanno fretta, devono inoltre tener conto del giudizio internazionale, poiché l’Egitto dipende economicamente dall’estero (per il turismo e gli investimenti) e la situazione è pessima. Ma non cambieranno. Ribatto che anche dei comunisti si diceva la stessa cosa. La risposta è decisa: i sovietici avevano 70 anni, qui parliamo di secoli. E poi gli islamisti «sono bugiardi», non scoprono mai le carte. Barano. In realtà l’islam politico espresso nei nostri giorni è stato inventato negli anni Venti con l’intenzione iniziale di strappare l’islam dalla decadenza riportandolo alla sua identità religiosa e proteggerlo dai modelli (comunismo e democrazia) proposti dall’Occidente. Benché non violento, da quel movimento, via via clandestino, perseguitato, ufficioso, oppositore o complice del potere, si sono staccati individui tentati o coinvolti nel terrorismo, e si sono sprigionate frange jihadiste. Ma l’islamismo moderato di oggi non sembra sentire il richiamo del jihadismo, in declino anche se chiassoso. La via democratica scelta risulta tuttavia impervia. Il codice che ne regola il traffico non è fatto di dogmi religiosi, ma di principi elastici, di tolleranza, e il potere non è mai assoluto come quello proveniente dall’alto. Insomma, non si sente sempre a proprio agio chi pensa di interpretare verità rivelate. Non era certo a suo agio l’ala estrema dell’islamismo, quella salafita, e ha tuttavia rinunciato a molti principi e ha accettato il gioco democratico presentando candidati alle elezioni, e conquistando un quarto dei seggi nella Camera bassa. In quanto alla “sincerità” in termini politici non è pertinente, in particolare nelle convulse evoluzioni della storia quando è la realtà a dettare i comportamenti. L’insurrezione di piazza Tahrir, prima di essere confiscata dagli islamici, ha dato il via a un processo democratico che ha ampliato abbastanza il formale pluralismo da vietare all’attuale governo di realizzare i progetti covati quando sognava una società sottomessa ai principi coranici. Forti e numerosi partiti laici d’opposizione lo incalzano, lo controllano e ne denunciano gli abusi. L’evidente esitazione con cui i ministri e lo stesso presidente agiscono può essere dovuta all’imperizia, all’incapacità, ma anche ai dubbi, ai ripensamenti paralizzanti. Rivela un travaglio, un dibattito nel partito Libertà e giustizia, espressione politica della Confraternita dei Fratelli musulmani. Insomma è più facile immaginare gli islamisti trasformati dall’esperienza al potere, che pensare a un paese islamizzato da loro, nell’epoca in cui viviamo. L’Egitto non ha la possibilità di chiudersi come le grandi nazioni petrolifere, quali l’Arabia Saudita, o il persiano Iran degli ayatollah. Dipende dall’esterno. Conta inoltre la sua storia e il fatto che vi viva l’importante collettività copta. Cavalcare una rivoluzione violata non sarà comunque facile. Per questo i miei conoscenti del Ghezira club contano sull’esercito, come estremo ricorso. Il precipitare degli avvenimenti, l’esplosione di violenze sociali, o le repressioni poliziesche, tutte possibili, possono vanificare i pronostici ottimisti. E la situazione è giudicata esplosiva da molti. I militari restano sullo sfondo. Il governo islamico e il presidente Morsi, eletto al suffragio universale diretto, devono tenerne conto. Fanno parte del panorama politico e sociale. E’ una peculiarità dell’Egitto. Erano 438mila gli uomini in servizio e 479mila i riservisti nel 2011. E sono alla testa di un impero finanziario: controllano in larga parte la produzione dell’olio d’oliva e dell’acqua minerale, le pompe di benzina e il mercato immobiliare, l’industria della pesca e vaste aree turistiche… Si calcola che più di un terzo dell’economia (alcune valutazioni salgono al 40%) sia nelle loro mani. Ma il potere e il prestigio di cui usufruiscono provengono anche dal mai trascurato rapporto con la popolazione. Essere ammessi all’Accademia militare non è soltanto un onore, ma anche una delle rare occasioni di promozione sociale per i giovani delle classi meno favorite. Lo spirito dei bikbachis (i colonnelli) promosso da Nasser, che aveva quel grado quando tramò ed eseguì il colpo di Stato del ‘52, impone di non trascurare i mutamenti nel paese. Il fatto che in tutte le classi sociali ci siano famiglie con qualche membro nelle Forze armate ha creato un forte legame tra la gente e la società militare. Ed è proprio una vera società quella che si è formata in 60 anni, con i suoi club, i suoi quartieri, le sue scuole, i suoi ospedali; e che per 60 anni ha dato i capi di Stato, ed è stata la spina dorsale del regime. Ha dovuto anche reprimere per combattere il terrorismo, controllare i Fratelli musulmani o sedare le rivolte del pane (come nel 2008), ma in generale l’esercito ha cercato con abilità di non apparire, pur essendolo, un puro strumento di forza al servizio del potere. Nonostante le sfortunate guerre con Israele (1948-’49, 1956,1967,1973) i militari non hanno perduto il rispetto degli egiziani. E a questo ha contribuito, la grande abilità dei generali, più esperti in politica e in diplomazia che in strategia. È raro imbattersi in un ufficiale per le strade del Cairo. Non si nascondono, sono riservati. Anche quello che incontro sul ponte di Zamalek vorrebbe esserlo, ma impettito com’è, inguainato nella divisa beige, con le scarpe nere e la cartella sotto il braccio, domina con la sola silenziosa presenza il quasi completo campionario della folla cairota sul punto di passare da una sponda all’altra del Nilo. Il giovanotto in divisa, con la sua espressione distesa, sembra essere il punto di sostegno del caos umano circostante: donne velate e guantate, ed altre in jeans aderenti, uomini incollati ai cellulari, facchini impolverati con carichi esagerati sulle spalle, burocrati altezzosi e ragazzi che urtano i passanti invocando un’elemosina. Tutti i passanti, tranne uno. L’ufficiale. Il rispetto per l’esercito ha fatto sperare invano ai democratici, ai promotori della primavera, che i militari avrebbero finito per difendere la rivoluzione, anche ritardando le elezioni perché se indette in gran fretta sarebbero state vinte come è accaduto dagli islamici di gran lunga meglio organizzati. L’esercito ha esaudito alcune domande di piazza Tahrir, in particolare ha spinto alle dimissioni Mubarak, chiuso i suoi figli in prigione, proibito la sua formazione politica, il Partito nazional democratico, ha incontrato i manifestanti, e adottato un calendario costituzionale. Ma invece di intendersi con i liberali di piazza Tahrir e di accogliere le loro rivendicazioni sociali e politiche, la gerarchia militare ha gestito il dopo Mubarak difendendo i propri interessi, al fine di mantenersi al potere. In sostanza ha tenuto in piedi il vecchio ordine istituzionale, ha neutralizzato gli avversari laici e islamisti aizzando gli uni contro gli altri, è riuscita a mantenere segreto il proprio bilancio e a conservare il diritto dei tribunali militari di giudicare i civili per alcuni reati. Dopo avere scaricato Mubarak la gerarchia ha rinnovato anche gli alti gradi: ai generali decrepiti sono succeduti generali meno anziani. Favorendo la gara elettorale, quindi rispettando la formale via democratica, ha finito con l’appoggiare per a prima volta l’ascesa non solo di un civile ma di un fratello musulmano alla massima carica dello Stato. Creando di fatto un’intesa, non gridata ma evidente, tra conservatori militari e conservatori islamisti. Destinati a controllarsi a vicenda. Gli americani non possono che essere rassicurati. Finanziano i militari egiziani (un miliardo e 300 milioni all’anno) in quanto garanti degli accordi di Camp David con Israele, e sanno di poter contare su di loro per evitare eccessi coranici al governo. Per il momento da piazza Tahrir è nata una democrazia di stampo militarislamica. Una democrazia provvisoria.
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