Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

Da Gerusalemme, al direttore della Stampa 19/02/2013

Copia di e-mail inviata a Mario Calabresi, direttore de La Stampa:

Direttore,
a Gerusalemme sono le nove e mezzo della sera, ora che inizio a scriverle. Invierò questa stessa lettera ad altri giornali, e non solo per evitare la censura, ma perché l'implorazione che essa contiene è rivolta a ognuno che voglia finalmente aprire il proprio animo e liberarlo dalla morsa della non verità.
Le chiedo di guardare con onestà le foto che accludo a questa lettera, qui di seguito, per spedirle le quali ho dovuto rivivere la violenza, l'orrore e l'inumano oltraggio che gli assassini antisemiti, per l'ennesima volta, hanno portato dentro una casa ebraica, pugnalando i cuori, il sonno dei bambini, e ululando di odio e soddisfazione nel buio, un odio che nemmeno gli sciacalli della notte conoscono e provano; solo loro, gli assassini, che nessuno di voi ha mai davvero condannato, mai!
A quella violenza, a quell'orrore, a quell'inumano oltraggio oggi sono i suoi due giornalisti Francesca Paci e Marco Belpoliti che aggiungono offesa, con i loro ignobili articoli dove mistificazione e manipolazione seguono la miserevole e spudorata scia della teologia della sostituzione, per cui il Verus Israel è oggi il popolo palestinese, e il "piccolo pastorello" Davide è il bambino di Hamas, che lotta privo d'armi contro il Golia israeliano.
Una vergogna contro la quale imploro giustizia e verità, anche da lei, Direttore, figlio di un uomo assassinato dalla protervia della menzogna.
Da poco sono tornata a piedi dalla città vecchia, dove ho trascorso la fine dello shabbat chiacchierando con vecchie ebree dalla parlata ancora marocchina, nonostante siano passati sessant'anni e più da quando esse giunsero qui bambine, in fuga da Rabat, da Casablanca, da quel bianco Oceano Atlantico e dalle onde d'un sognato amore, o dall'antica Mellah di Fez, dai vicoli intricati, dalle risa, dai colori e dalle spezie che ancora s'insinuano nell'orlo delle loro vesti.
Donne dai turbanti candidi, che sovrastano le loro rughe infinite. Nella notte fredda e pura ho risalito la via che dalla porta di Yaffo conduce alla città nuova, seguendo il cammino dondolante dei chassidim, l'eleganza dei loro shtreimel, il loro mormorìo in yiddish, che so capire.
Ero in pace, perché una di quelle ebree della mia infanzia mi ha salutata alla maniera araba, baciandomi il dorso della mano, e io le ho risposto allo stesso modo, baciandole le dita della mano e portandomele alla fronte, unite, e le ho detto: -Che Dio ti benedica, Umm! - Vieni domani allo shuk, figlia, io sono là, a Machane Yehudah; potremo raccontarci qualche cosa in Ladino; ancora qualche parola, qualche canto me li ricordo, sebbene venni bambina! Ho sentito quei gesti e quelle parole come un risarcimento reciproco d' un dolore, di un dolore di donne forti eppure percosse dentro, in un tempo, in uno spazio di mille e mille anni fa. Ho camminato lungo via Yaffo, dove sono tornata per un momento sui miei passi per vedere se l'uomo disteso su un materasso, avvolto in una sola coperta, stesse dormendo o - Dio non voglia - non fosse invece inerte, morto per il freddo troppo intenso. - Stai bene?, gli ho chiesto in ebraico. - Beseder gamur, bene, bene, egli mi ha risposto. Allora l'ho pregato di non rimanere là per il resto della notte, di andare. A Gerusalemme ci sono tanti luoghi dove trovare aperta la porta, dove sedersi e mangiare, bere qualche cosa di caldo, essere accolti, la cosa più naturale al mondo.
Ho proseguito per via Ben Yehudah, dove ho incontrato altri volti poveri della notte, una musica di profeti nella loro voce, una testimonianza retta e vera che, come la lama di una spada di luce, si conficca nel nostro sguardo nudo, pulito. Sulla via King George ho visto le prime stelle, quella più in alto della luna, una stella o un pianeta, risplendente, che ora, nel mese di Adar, una volta a casa, volevo studiare di nuovo come si chiami, io che l'ho sempre chiamata la stella del mio amore, della mia vita protesa nella direzione di lui, che ha visto ad occhi aperti la guerra, la morte dei compagni e di coloro, là, chiamati nemici nella battaglia, nella polvere, eppure figli di questa stessa nostra esistenza, di questo nostro comune, tormentato stare al mondo.

A casa ho riacceso le luci, e anche il computer Ed è così che ho letto i giornali italiani; è così che ho dovuto rivivere la violenza, l'orrore, l'inumano oltraggio narrato dalle immagini di quelle vittime, alla cui memoria gli articoli di oggi dei suoi due giornalisti, Direttore, aggiungono offesa, e nequizia.
Contro questo io imploro giustizia e verità, ora finalmente dure, libere dalla mistificazione e dalla manipolazione. Giustizia e verità, ora finalmente dolci! Non importa che centinaia e centinaia di bambini siano stati massacrati in Siria, mentre la moglie algida del tiranno, che ad ogni guerra a Gaza richiamava, con il suo allure, l'attenzione mondiale sui "crimini mostruosi degli israeliani", tace vile complice.
Non importa che non sia l'immagine di quei corpi trucidati a essere presa per raccontare al mondo il lutto ai funerali dei bambini e il muto grido della morte. Non importa che sia solo la morte dei bambini arabi palestinesi quella fotografata, e solo per dimostrare la disumanità d'Israele, per rivolgere agli ebrei ancora l'accusa del sangue e lavare così la propria coscienza antisemita. Non importa l'ignoranza volontaria della storia, di come le cose siano andate; per esempio a Dresda, quando centinaia e centinaia di bambini vennero falcidiati dalle bombe degli Alleati; e chi può non pensare a questo, al lutto dei padri e delle madri, se mai quei padri e quelle madri sopravvissero ai loro nati, fra le macerie e la distruzione! Ma chi può dimenticare le marce e l'odio, chi può negare donde essi fossero partiti, e la violenza di chi avesse allora travalicato ogni limite umano, invocando la guerra, la fine degli ebrei e la morte stessa come divinità!
Non importa che altre immagini vere non vengano diffuse, che le nefaste marce con il braccio alzato e il grido "a morte l'ebreo", inculcato sin nei giochi dei bambini, sconvolgano l'aria, il mare di Gaza, e ogni volta la nera pioggia di missili sulle case, sulle scuole, sul cuore, sul respiro dei bambini ebrei di Ashchelon, o di Ashdod, o di Beersheva cada mischiata al fumo, all'urlo di guerra ed esaltazione, al trionfo anche nella sconfitta! Non è più questo che ora importa.
Questo importa alle parole vere, Direttore, al deserto della propria lungimiranza, perché sa, è scritto che gli ebrei sanno aspettare. Essi sanno attraversare il deserto, anche il vostro deserto privo di verità. Questo importa alla speranza d'Israele, che pure sa sopravvivere alla morte e all'odio, e coltivare il seme di una pace insepolta. Un lutto è un lutto, il viaggio di un padre con suo figlio piccolo morto, tra le sue braccia, è un viaggio che nessuno dovrebbe compiere, neanche il cosiddetto nemico.
Sono le mistificazioni e le manipolazioni, quel vizio perverso di costruire tra le righe l'accusa, che oggi importano. E contro di esse io imploro giustizia e verità, durissime, ora, finalmente; capaci di spezzare la catena dell'inganno deliberato.

Dolci, ora, finalmente, perché i nomi delle vittime del massacro di Itamar, il nome di Ruth, di Udi, dei loro piccoli Yoav, Elad, Hadas, possa sì essere sepolto, e riposare in pace. Essi non sono le sole vittime la cui memoria gli articoli dei suoi due giornalisti ancora ferisce e nega, Direttore.
Troppe altre ne abbiamo viste sulle strade, sugli autobus d'Israele, a Gerusalemme, in quei crocicchi della città vecchia da cui stasera sono risalita a piedi, spiando i nascondigli dei gatti, il lavoro di operai arabi nel quartiere armeno, con l'odore del cemento impastato all'acqua dentro una vasca, che arrivava ed era buono.
Come quell'altra intera famiglia arsa nel fuoco e nei chiodi di una cintura kamikaze, i riccioli dei bambini, le loro peot bruciate insieme con i loro cuori, con il palpito delle loro vite svanite in un attimo, al grido di guerra venuto da Gaza. Allora io imploro giustizia e verità, ora, finalmente. Dure, ora, e dolci, finalmente, per tutti quei nomi, per tutte quelle membra sparse sul selciato, su cui gente come i suoi due giornalisti, Direttore, non si vergogna di calare ancora la scure.
Dica a Francesca Paci, a quelli come lei, che il pastorello re Davide era ebreo, e che il gigante Golia guidava i filistei che volevano scacciare e sottomettere gli ebrei invasori. Spieghi loro che la teologia della sostituzione ha funestato le strade ebraiche d'Europa, riempendole di corpi di madri e di bambini uccisi, a causa dell'accusa del sangue. E anche a lei, Direttore, me ne perdoni, anche a lei, come ai suoi due giornalisti, a quelli come loro, io scrivo Vergogna!
Ero in pace, stasera, tornando dalla città vecchia. Bambini arabi di Gerusalemme trasportavano il loro carretto di colore verde, sul quale i loro genitori dispongono il pane, le pannocchie di mais cotte al vapore da vendere. La carezza di un'antica ebrea sul volto, su ogni stanchezza e pianto. La notte era fredda e pura, senza il verso degli sciacalli. Solo il vento, e quella stella, o un pianeta, più in alto della luna.

 Ariella Lea Heemanti, Gerusalemme
6 Adar 5773- 16 febbraio 2013


Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui