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La mia ricetta per la pace
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli Cari amici, vorrei contare ancora sulla vostra pazienza per continuare a commentare il mio “incubo della pace” (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=48124 ). C'è una possibile obiezione, che mi sono sentito fare tante volte, e mi sembra il caso di approfittare di questa piccola serie per rispondervi. L'obiezione è semplicissima: va bene, i palestinesi saranno inaffidabili e disonesti, vorranno distruggere Israele, ma tu la vuoi la pace o no? E se la vuoi, come pensi di arrivarci?
Prima di rispondere, devo fare un paio di premesse. La prima è che io, come qualunque persona normale, come tutti in Israele, la pace la voglio. L'ideologia che privilegia la “grande pulizia” della guerra, la sua capacità di ristabilire gerarchie e valori, di esaltare l'eroismo e via sviluppando la retorica, è quella nazifascista, che non ha nulla a che fare con l'ebraismo, né con il sionismo. Chi esalta la guerra, nel mondo contemporaneo è l'islamismo. Sono stati i dirigenti di Hamas, non quelli di qualunque gruppo israeliano, a spiegare che vinceranno “perché amiamo la morte più di quanto voi [israeliani, occidentali] amiate la vita”. E' l'Autorità Palestinese, quella “moderata” a dedicare piazze, tornei di calcio, rievocazioni televisive, ogni tipo di onori, ai macellai che hanno ammazzato bambini sugli autobus, vecchi immersi nella liturgia pasquale, donne nei centri commerciali. Sono sempre loro che pagano uno stipendio a tutti i “prigionieri” nelle carceri israeliane, anche i colpevoli dei più atroci delitti, che certo non si possono chiamare nemmeno guerra, e a esigerne la liberazione, senza eccezioni, come precondizione per la ripresa delle trattative. Gli ebrei pregano per la pace in tutte le loro funzioni e considerano la parola “shalom” cioè “pace” non solo il saluto più giusto da dare quando si incontra qualcuno, ma addirittura uno dei nomi di Dio.
La seconda è che non credo proprio alla funzione della mosca cocchiera. Non credo cioè all'intellettuale che si improvvisa guida (mediatica) del suo popolo e gli spiega, dall'alto della sua cultura, della sua musica o della sua letteratura, che cosa dovrebbe fare o non fare. Mi fanno ridere i direttori d'orchestra che prescrivono condotte diplomatiche, gli scrittori che spiegano al morale al loro stato; mi fanno imbestialire i guitti che si atteggiano a quello che non sono (ebrei ortodossi) e giudicano dall'alto della loro molto presunta moralità i “delitti”, i “crimini”, gli “errori” di Israele, naturalmente condannandolo al confronto con la splendida lotta e la mirabile resistenza dei loro amici palestinesi. Dunque io non solo non ho ricette, ma non ritengo di doverle avere. Io vivo in Italia, credo che sia mio dovere di lealtà nei confronti del popolo ebraico (ma anche del paese in cui vivo da sempre e del continente della cui cultura porto le tracce), spiegare la situazione del Medio Oriente che è oggetto di una sistematica disinformazione, di cui certamente fa parte lo slogan “pace subito”, che piace tanto ai benpensanti.
Quindi non ho ricette, non penso di dover consigliare nulla a primo ministro o al Parlamento israeliano, che sono certamente di ottimo livello e legittimati a prendere decisioni non solo in nome dell'elettorato israeliano che li sceglie, ma dell'intero popolo ebraico. Essere sionista oggi significa esattamente credere che vi è un legame fondamentale, di responsabilità reciproca oltre che di amore, fra tutti gli ebrei del mondo e lo Stato di Israele e sapere che il destino collettivo degli ebrei si decide nella terra che fu abitata dai patriarchi, da Davide e Salomone, dai maggiori profeti e che oggi è di nuovo abitato dai loro discendenti.
Detto questo, io credo di sapere che lo slogan “pace subito” (in nome del quale furono stretti gli accordi di Oslo) oggi si è dimostrato sbagliato e pericoloso. La pace subito non è possibile. Ogni gesto che Israele ha fatto in questa direzione (il permesso ad Al Fatah di stabilire un proprio controllo sui territori della Giudea e della Samaria, l'abbandono della zona di sicurezza in Libano, l'abbandono della striscia di Gaza) non ha prodotto affatto la pace, neppure un vago accenno in questo senso, ma al contrario è stato causa di guerre e di sofferenze immani, da una parte e dall'altra. Che a Ramallah e dintorni dopo Oslo si siano allevate generazioni di terroristi (e ancora lo si faccia), è un fatto indubitabile. Che il prezzo di sangue pagato dopo gli accori di Oslo (prima intifada) e dopo il tentativo di svendita di Camp David (seconda intifada) sia stato immensamente maggiore di quel che accadeva prima, quando c'era davvero un'amministrazione israeliana dei “Territori”, è un altro fatto. Che sui territori del Sud Libano che facevano da zona cuscinetto e che Israele decise di abbandonare, senza esservi affatto costretto sul campo, si è istallato Hezbollah, che ha come obiettivo la distruzione di Israele e come metodo la guerra, è un quarto fatto. Che lo stesso sia accaduto con Gaza, abbandonata senza nessuna necessità militare e diventata la roccaforte di Hamas, è un quinto. I “dolorosi sacrifici” richiesti dagli alleati americani e applauditi (per un giorno o due) dalla stampa e dalle cancellerie occidentali, sono stati tutti, senza eccezioni, disastrosi, hanno portato solo guerra e distruzione, in Israele ma anche fra gli arabi usati come scudi umani collettivi e insieme come base di reclutamento da fanatizzare ad opera dei vari movimenti terroristi.
La “pace subito”, i “dolorosi sacrifici”, la “terra in cambio di pace”, per dirla con Tayellerand, sono peggio di un crimine, sono un errore. E il Medio Oriente è un posto dove gli errori si pagano molto cari. Seguire questa strada è andare al suicidio, questo l'elettorato israeliano l'ha capito, come dimostrano anche le ulktime elezioni, che pure hanno punito la politica sociale di Netanyahu. Non l'hanno capito, o non hanno voluto capirlo la stampa, molti governi occidentali, un gruppetto di intellettuali ebrei ben decisi a evitare che dei fatti antipatici e stupidi possano turbare le loro certezze ideologiche (e i vantaggi che in Europa si riservano agli ebrei “buoni”, agli zio Tom che si adeguano alle “buone intenzioni” dei loro ammiratori e finanziatori, naturalmente sulla pelle di Israele.
E allora qual è la tua ricetta? Semplice e poco entusiasmante, mi spiace. E' quel che Israele fa dalla sua fondazione (a parte un paio di furibonde parentesi ideologiche) fra trenta e vent'anni fa: gestire l'esistente. Cercare di evitare i conflitti inutili, ma affrontarli con coraggio quando sono indispensabili. Cercare gli spiragli possibili di pace (o di non belligeranza, se vogliamo essere realisti) nella collaborazione economica, elevare il livello di vita dei palestinesi non solo per spirito umanitario ma anche per far sì che risulti più conveniente per loro lo status quo che la rottura della guerra o della rivoluzione. Costruire gli strumenti per difendersi e per dissuadere gli attaccanti. Puntare sulla tecnologia. Prevenire attentamente i rischi strategici, cercare alleanze con i nemici dei propri nemici, anche se risultano ideologicamente sgradevoli. Questo comportamento (davvero moderato, saggio, prudente e lentamente costruttivo), questa politica realistica è esattamente il contrario degli slogan estremisti come “pace subito”. Questa è la ricetta di Israele e dunque anche la mia ricetta. Non piacerà sicuramente agli idealisti tutti d'un pezzo e ai moralisti a spese altrui. Ma, devo confessarvi, non mi importa nulla di questi signori, per popolari che siano, grandi scrittori, direttori della Scala, conduttori televisivi famosi o piccoli politici della comunità ebraiche o guitti che siano.
Ugo Volli |
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