Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 19/02/2013, a pag. 49, l'intervista di Leonetta Bentivoglio ad Amos Oz dal titolo "Perché racconto sempre le famiglie infelici".
Amos Oz
Amos Oz non è solo uno dei massimi scrittori viventi e uno dei personaggi più rispettati e impegnati d’Israele. È anche un uomo di presenza solida e pacificante, dotato di un calore umano che scorre come un’onda viva. A più di settant’anni (è nato a Gerusalemme nel 1939), il celebrato autore di
Una storia d’amore e di tenebra emana un’energia e un’integrità che fa pensare agli schemi severi e coerenti di certe parabole bibliche. Il volto è scavato dal vento del deserto, suo ambiente naturale, dato che Amos ha scelto di abitare ad Arad, minuscola città che ci sta in mezzo: «Mi sveglio ogni mattina un po’ prima dell’alba e cammino per quaranta minuti nel deserto, inspirandone l’aria secca e pulita, e ascoltando il silenzio. Tutto, lì, assume giuste proporzioni. Quando torno a casa, accendo la radio e sento un politico che pronuncia parole come “mai” o “per sempre” o “per l’eternità”. Allora so che le pietre del deserto stanno ridendo di lui».
Oz è giunto alla Comédie Française di Parigi per riunirsi a Fabio Vacchi, uno dei più eseguiti compositori contemporanei, che è suo grande amico e complice creativo (Vacchi è autore, tra l’altro, dell’opera lirica
Lo stesso mare,
2011, ispirata al romanzo di Amos dallo stesso titolo). Insieme hanno presentato con successo, davanti a un pubblico affollato di studenti,
Soudain dans la forêt profonde”
(esecuzione della Mozart Orchestra diretta da Claire Gibault), una fiaba visionaria e intensa sulla fede nella possibilità di lottare per migliorare il mondo. È la versione francese del melologo
D’un tratto nel folto del bosco,
musica di Vacchi e testo ritagliato dall’omonimo romanzo di Oz, adattato per la scena da Michele Serra (in Italia debuttò nel 2010 al festival Mito). Dopo il concerto lo scrittore, che è a Parigi anche per promuovere l’edizione francese (Gallimard) di Tra amici, uscito da noi l’anno scorso (Feltrinelli), trova il tempo per parlare del suo rapporto con la scrittura e del suo presente d’intellettuale in prima linea nel dibattito politico israeliano.
Amos Oz, la musica è importante nella sua vita?
«Non potrei farne a meno. Fin da bambino ho sviluppato una dipendenza quasi sensuale dalla musica. Confesso: il mestiere che avrei voluto fare è il musicista. Diventare romanziere è stata una seconda scelta».
È possibile rintracciare un tema centrale nella sua produzione?
«Se mi si punta una pistola alla tempia, e vengo costretto a rispondere con un’unica parola, dico che il soggetto di tutti i miei romanzi è la famiglia. Se mi concede due parole, le dirò: famiglie infelici. La stranezza dell’istituzione familiare mi affascina. Noi, per natura, non siamo monogami. Eppure quella cosa innaturale chiamata famiglia passa incessantemente da una generazione all’altra. Con ostacoli, difficoltà, rotture. Ma dopo migliaia di anni esiste ovunque, nell’Iran degli ayatollah e nel Greenwich Village postmoderno, tra gli Zulu africani e tra gli esquimesi del Polo Nord. È tutta la vita che inseguo questo mistero».
Non solo lei: la letteratura israeliana ne sembra catturata. Basti pensare ai romanzi di Yehoshua, di Grossman...
«Nella cultura ebraica la famiglia è l’istituzione centrale. Non la Chiesa, non il Papa, non Dio: la famiglia. Ogni cosa succede intorno alla tavola familiare, dove per esempio si leggono i testi sacri».
Come spiega che in un Paese piccolo come Israele ci sia una forte concentrazione di grandi scrittori?
«Forse perché abbiamo una lingua che è un miracolo degno di essere esplorato continuamente. Per diciassette secoli l’ebraico è stato una lingua morta, come il latino o il greco antico, ma circa centoventi anni fa è tornato a vivere. Oggi le persone volano sui jumbo in ebraico, fanno i chirurghi in ebraico, lanciano i satelliti in ebraico. È un linguaggio che allo scrittore dà molta libertà, e accoglie sempre nuove parole. È dinamico. È come l’inglese elisabettiano. Un vulcano in eruzione, un terremoto, una lava incandescente. Per di più, in questa lingua in perpetua evoluzione, l’eco della Bibbia resta ovunque».
C’è stato qualcuno, in principio, che le ha trasmesso l’amore per il racconto?
«Mia madre era una grande narratrice. Le sue storie della buonanotte erano prodigiose. Gotiche, oscure. Ne aveva un patrimonio inesauribile. E le inventava al momento, come in un flusso».
E la biblioteca di suo padre? È stata anch’essa
determinante?
«Ne ho un ricordo mitico. Vivevamo in un angusto appartamento a pianoterra, era un po’ come stare in un sottomarino.
Ma era pieno di libri che io leggevo in modo ossessivo e indiscriminato, perché non avevo altro da fare. Gli inglesi imponevano il coprifuoco nelle strade di Gerusalemme, perciò la sera non si poteva
uscire. Non avevo fratelli né sorelle. Sognavo di diventare io stesso un libro, forse perché i libri sopravvivono sempre allo sterminio».
Il suo ultimo libro uscito in Italia,
Tra amici,
si svolge in un kibbutz. E lei stesso quando, a tredici anni, perse tragicamente sua madre, lasciò suo padre e andò a vivere in un kibbutz. Lo considera ancora un modello sociale ideale?
«Non penso che lo sia, perché la natura umana non è ideale. Ma mentre negli anni Cinquanta si cercava di rivoluzionare la natura umana, oggi si è capito che non è modificabile. Perciò i kibbutz sono diventati più tolleranti, morbidi e accoglienti. Prima erano dominati da un’ideologia troppo rigida. Comunque
Tra amici
non è un libro sul kibbutz, che vi funge solo da sfondo, come una tela su cui dipingere emozioni quali l’amore, la solitudine, il desiderio, la possibilità di fare delle concessioni, la tentazione di abbandonare qualcuno».
Oz: non a caso lei ha scelto questo nuovo cognome, che significa forza, al posto dell’originario Klausner. Come esercita nel mondo il vigore che rivendica?
«Ricollegandomi a una cultura dell’impegno che è al tempo stesso ebraica e slava. Poeti, scrittori e artisti, nelle comunità ebraiche dell’Europa dell’Est così come in Russia, sono stati sempre coinvolti negli affari pubblici. Niente a che vedere col mondo anglosassone, dove si considerano gli scrittori innanzitutto degli intrattenitori. Lo era anche un genio come Shakespeare. Nella tradizione ebraica, il coinvolgimento nella cosa pubblica trova origine nei libri dei profeti. Ma la generazione attuale, in Israele, è molto meno coinvolta della mia».
Un tema centrale dei suoi saggi è il fanatismo.
«Non c’è solo il fanatismo religioso. Sono tante le sue forme. C’è quello sciovinista, il vegetariano, quello che criminalizza i fumatori... Conosco certi pacifisti pronti a uccidermi perché io, da pacifista, parlo di una strategia mirante alla pace con i palestinesi diversa da quella in cui credono loro. Penso che il massimo conflitto del ventunesimo secolo non sia tra Oriente e Occidente, o cristianesimo e islamismo, ma tra i fanatici e il resto dell’umanità. Il fanatismo è la sindrome del nostro tempo. E provare ad abbatterlo significa anche avere molto
sense of humour.
Non esistono fanatici dotati di
umorismo».
Lei si è dichiarato spesso critico nei confronti del volto odierno, politico e sociale, del suo Paese. Perché?
«La società israeliana, purtroppo, diventa sempre più insensibile verso l’occupazione della terra palestinese. In Israele, inoltre, si sta perdendo il senso della solidarietà. È un Paese sempre più americanizzato, materialista ed egoista. Il governo attuale rifiuta la ricerca di una soluzione di pace con i palestinesi, e la sinistra israeliana non riesce più a far sentire la sua voce».
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