Come si diffama Israele: ma IC se n'è accorta subito la foto World Press Photo Award costruita ad arte per fare propaganda
Testata: La Repubblica Data: 19 febbraio 2013 Pagina: 1 Autore: Michele Smargiassi Titolo: «Se persino la fotografia più bella è ritoccata»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 19/02/2013, a pag. 1-47, l'articolo di Michele Smargiassi dal titolo "Se persino la fotografia più bella è ritoccata".
Al di là del commento di Michele Smargiassi, il quale è libero di trarre tutte le conclusioni che ritiene opportune, ciò che riteniamo importante è lo scandalo del premio attribuito ad una foto che, a questo punto, solo chi è in malafede non può non accorgersi essere stata ripresa in un teatro di posa, studiata ad arte secondo quella raffinata tecnica di manipolazione della verità, in questo caso fotografica, nella quale eccelle la propaganda contro Israele. In Italia l'ha presa sul serio solo La Stampa, che l'ha pubblicata con enorme rilievo cascando nel tranello in una maniera tale che non può essere giustificata da ingenuità o ignoranza. Per leggere gli articoli di Marco Belpoliti e Francesca Paci cliccare sul link sottostante. (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=48108). IC è stato l'unico mezzo di informazione che ha denunciato per primo il falso. Invitiamo i nostri lettori a scrivere a Mario Calabresi, direttore de La Stampa, per chiedere una doverosa rettifica per la bufala propinata ai lettori.
Per la giuria del World Press Photo Award, l’Oscar olandese del fotogiornalismo, il caso non esiste. Qualunque ritocco lo svedese Paul Hansen, che venerdì ha ricevuto il primo premio per il 2012, abbia praticato sulla sua immagine vincitrice, «siamo convinti che rientri nelle pratiche accettabili della professione», hanno stabilito i guru di Amsterdam. Ne sono meno convinti centinaia di fotografi, o semplici appassionati, che da venerdì intasano i forum di Internet con proteste contro la «teatralizzazione del dolore», e la «foto trasformata in un Caravaggio ». Di drammatizzazioni, quell’immagine non parrebbe avere bisogno. Mostra il funerale concitato e affranto di Suhaib e Muhammad, fratellini palestinesi di due e quattro anni uccisi il 20 novembre nel bombardamento israeliano della loro casa a Gaza City. Un’immagine di dolore estremo, un urlo contro una guerra ingiusta e spietata. Ma nessuno contesta quel che la foto racconta. Il dubbio è su come lo fa. Per una volta, non sono in questione l’aggiunta o la cancellazione di dettagli significativi, le bugie conclamate. La polemica si fa più sottile. Sotto accusa è lo “stile” che un uso eccessivo dei “pennelli elettronici” di Photoshop o di Lightroom imporrebbe al lavoro dei fotogiornalisti, allontanandolo dalla testimonianza visuale. Quell’abbondanza di dettagli nitidissimi in una situazione movimentata. Quella luce calda che piove da sinistra, sui volti, scaturita da chissà dove, in un vicolo stretto e buio. «Per un attimo la luce è rimbalzata sui muri della stradina», ha spiegato Hansen al New York Times. Ma non bisogna essere dei tecnici per intuire che questa immagine non è uscita così come la vediamo dalla fotocamera. Del resto, «non c’è fotografia mediatizzata, oggi, che non sia più o meno post-prodotta », conferma Renata Ferri, photo-editor di grande esperienza, due volte nella giuria del WPP, «e le regole del premio, lo garantisco, sono molto severe, proprio per impedire che gli eccessi dilaghino ». E questa foto, perché è passata? «Questa non è una foto disonesta, mostra un fatto tragicamente reale. A me comunque non piace, io sono per il ritorno al documento, anche spoglio, brutale. Purtroppo la tendenza all’epicità, alla “licenza poetica”, sta dilagando. Non c’è fotografo che non ci provi, ma non tutti i fotografi possono esse dei Goya, come non tutti i giornalisti scrivono come Montale». Cosa spinge i fotoreporter, cacciatori di “storia presa dal vero”, a pigiare sul pedale del-l’effetto scenografico? In verità, l’aggiustamento “dopo lo scatto” non nasce con la fotografia digitale, eroi del fotogiornalismo come Eugene Smith entravano in camera oscura con un negativo e ne uscivano con una stampa ben diversa. Nel film War Photographer una sequenza mostra l’accanita pazienza con cui James Nachtwey, il più accreditato erede di Bob Capa, ristampa decine di volte un negativo, mai contento dei toni. Ma erano casi singolari. Oggi è la docilità un po’ standard dei software di fotoritocco a stimolare il nuovo pittorialismo? È vanagloria tecnicamente assistita? Roberto Koch, fondatore dell’agenzia Contrasto ed editore, ha una spiegazione più prosaica: «È la disperata ricerca, da parte dei fotoreporter, di modalità per affermare il proprio ruolo, la propria necessità a un’editoria e a lettori che sembrano non aver più bisogno di loro». Si stilizza per essere accettati da una cultura visuale dominata dalle estetiche della moda e della pubblicità. Effetti speciali per “bucare” l’indifferenza mediatica che stritola la fotografia di reportage. E se fosse un boomerang? «Io non l’avrei fatto, anche se non c’è nulla di eticamente scorretto nel trasformare in un dipinto il funerale di due bambini», premette Pietro Masturzo, ultimo italiano ad aver vinto il WPP, nel 2010, «il problema è che ora lo fanno tutti, con gli stessi strumenti, lo stesso stile, e il risultato è che, Gaza o Siria o Haiti, le foto sono ormai tutte uguali. Peggio ancora, rendono uguale quel che raccontano. Io sono tentato di tornare indietro di vent’anni, al bianco e nero e alla camera oscura... ». I “codici etici” dei grandi giornali anglosassoni pongono proprio questo limite alle manipolazioni digitali: che non superino le “normali pratiche” di controllo di contrasto e toni abituali in camera oscura. Ma già allora c’era chi tirava al massimo. «Se guardi un Moriyama anni Ottanta, o ancora prima un Klein, di toni e contrasti modificati ne trovi quanti ne vuoi», spiega Alex Majoli, presidente di Magnum, santuario del fotogiornalismo di qualità, «ma era il loro stile personale e inimitabile. Ora è una tendenza di massa, imposta dall’esterno, dagli strumenti a disposizione, dalle richieste del mercato. È un’estetica di moda. Ai miei colleghi che esagerano dico spesso: pensa che fatica, quando fra vent’anni dovrai ri-fotoscioppare tutto il tuo archivio per non farlo sembrare invecchiato... ».
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