lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
16.02.2013 Promosso 'The Gatekeepers', Niet per 'Zero Dark Thirty'
La sinistra del 'politicamente corretto' al cinema- Commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 16 febbraio 2013
Pagina: 9
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Polvere di Spie»

Con il titolo "Polvere di spie", Giulio Meotti analizza acutamente come due film, unoisraeliano, l'altro americano, sono stati accolti dalla critica. Uno molto elogiato, perchè 'politicamente corretto'. L'altro si è meritato una accoglienza freddina, non ha attaccato gli Usa, ma ha invece raccontato la cattura e l'uccisione di Bin Laden. Sul FOGLIO di oggi, 16/12/2013, a pag. IX dell'inserto.
Regaliamo ai nostri lettori una definizione di "POLITICAMENTE CORRETTO":
" La correttezza politica è la dottrina, sviluppata da una minoranza irrazionale e illusa, poi diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, che sostiene sia sempre possibile prendere in mano una merda dal lato pulito"
(inviataci da Enzo Nahum)

Giulio Meotti

Zero Dark Thirty” non è il solo film in corsa agli Oscar che racconti di come una democrazia combatta il terrorismo. C’è anche “The Gatekeepers”, la pellicola dell’israeliano Dror Moreh. Ma se i liberal hanno attaccato la regista americana Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal perché il loro film giustificherebbe la tortura, il film di Moreh sembra diventato la bandiera ideologica dei progressisti e dei critici d’Israele. “The Gatekeepers” incarna un paradosso. Non è un altro film israeliano contro la guerra, come “Lebanon” o “Valzer con Bashir”. La pellicola di Moreh, che si apre con un attacco di droni sulla Striscia di Gaza, è la versione semiufficiale della storia dello stato ebraico raccontata dai sei capi dello Shin Bet, il potentissimo servizio di sicurezza, anche noto come “Shabak”. Ma oltre a essere il grande affresco del più micidiale servizio di intelligence del mondo, “The Gatekeepers” è anche una pellicola politica contro il primo ministro in carica Benjamin Netanyahu e la decennale occupazione dei Territori. Il film stordisce. Perché se è vero che Carmi Gillon, Avraham Shalom, Yaakov Peri e Ami Ayalon sono tutti funzionari di aperta fede progressista, gli altri due funzionari ritratti nel film, Avi Dichter e Yuval Diskin, sono stati nominati da governi di destra e uno siede nel governo Netanyahu. Sarebbe quindi ingeneroso liquidare “The Gatekeepers” come una mera operazione liberal. Il film è prima di tutto uno straordinario pezzo di giornalismo contemporaneo, tanto che già dieci fra i maggiori critici cinematografici americani lo hanno inserito nella lista dei migliori film dell’anno. “The Gatekeepers” racconta di come gli agenti israeliani abbiano imparato l’arabo, studiato la cultura palestinese, mappato ogni angolo della casbah di Nablus, identificato ogni clan e struttura famigliare. “Ci sono notti in cui abbiamo arrestato centinaia di persone”, confessa Diskin. Per quanto ne sappiamo, Israele non ha mai usato il waterboarding, la tecnica che simula l’annegamento del prigioniero e che viene immortalata dal film della Bigelow come la chiave per individuare il nascondiglio di Osama bin Laden. Ma i sei capi del servizio segreto israeliano svelano le loro “tecniche rafforzate di interrogatorio” (enhanced interrogation technique), come le percosse violente, la privazione del sonno e “la posizione della rana”. Gillon, in carica dal 1994 al 1996, descrive il “compound russo” di Gerusalemme, dove i sospetti palestinesi sono stati interrogati, come “un posto per cui ogni persona normale, pur di uscirne, ammetterebbe di aver ucciso Gesù”. Diskin, che ha lasciato la direzione dello Shin Bet nel 2011, racconta di come abbia convinto migliaia di palestinesi a tradire amici e persino famigliari: “Si tratta di prendere una persona che non ti apprezza e fargli fare cose che non aveva mai pensato di essere capace di compiere”. Il film narra di come lo Shin Bet abbia assassinato Yahya Ayyash, il Bin Laden palestinese, cresciuto in una famiglia povera e tradizionalista di Gerusalemme. Un ragazzo tranquillo e intelligente, che aveva imparato a memoria il Corano a sei anni. “Un uomo timido, di poche parole”, lo ha descritto la moglie Asrar. Laureato in Ingegneria elettrica, al momento dello scoppio della prima Intifada Ayyash inviò ai gruppi terroristici una lettera in cui esponeva i suoi progetti di combattere gli ebrei usando lo strumento degli attacchi suicidi. “The Gatekeepers” racconta di come Ayyash cambiasse aspetto di giorno in giorno, e raramente dormisse più di una notte nella stessa casa. Anche i compagni che lo conoscevano meglio venivano ingannati dai suoi travestimenti. Si dice che abbia persino camminato per le strade di Tel Aviv vestito come un diplomatico straniero. Si dice che abbia partecipato ai funerali di Kamal Khalil, un importante esponente delle brigate al Qassam in Cisgiordania, vestito da donna. Una volta, Yitzhak Rabin, durante una seduta del Parlamento disse: “Ho paura che potrebbe essere seduto qui tra noi nella Knesset”. Secondo Gideon Ezra, ex capo dello Shabak, Rabin era allibito dalla capacità di Ayyash, che riusciva a farla in barba allo Shin Bet. Il terrorista sembrava talmente inafferrabile che fu paragonato a un fantasma che perseguitava lo stato ebraico, a un incubo insinuatosi nei sogni degli israeliani. Shimon Romah, ex comandante dello Shin Bet, in tv se ne uscì con questo commento: “Mi dispiace dirlo, ma sono costretto a manifestare una certa ammirazione per quest’uomo, che ha mostrato un’abilità e un’esperienza senza limiti”. Ironia della sorte, Ayyash, famoso per le sue bombe sofisticate, fu ucciso da qualcosa che sembrava architettato da lui stesso, un telefono cellulare che gli esplose nell’orecchio. In uno dei momenti più importanti di “The Gatekeepers”, il regista Moreh legge a Diskin alcune parole del filosofo Yeshayahu Leibowitz, che nel 1968 disse che l’occupazione avrebbe trasformato Israele in uno “stato di polizia”. Diskin risponde: “Sono d’accordo con ogni parola di Leibowitz”. Avraham Shalom, che fu capo dello Shin Bet negli anni precedenti l’Intifada, dice che “siamo diventati crudeli” e che “facciamo come i tedeschi”, mentre Ami Ayalon sostiene che “vinciamo ogni battaglia, ma perdiamo la guerra”. Il film stordisce quando sostiene che Israele userebbe “metodi nazisti”, quando recita il copione “chi è terrorista per qualcuno per un altro è un combattente per la libertà” e quando afferma che i palestinesi ricorrono al terrorismo perché “sono disperati”. “The Gatekeepers” è un tributo al milite ignoto israeliano. Fino al 1989 gli israeliani caduti lavorando per i servizi di sicurezza sono stati quattrocento. I loro nomi con la sola data della morte sono incisi in un monumento nei pressi di Gilot, a pochi chilometri da Tel Aviv. Da allora a oggi, ne sono stati aggiunti altri duecento. In quelle lastre di pietra non compare alcun altro dato: né gradi, né reparti, né località. Fra i caduti ci sono gli agenti dello Shin Bet uccisi da un kamikaze libanese a Tiro e personaggi come Moshe Golan, un ebreo di origine egiziana, ucciso dal suo informatore palestinese del campo profughi di Balata, a Nablus. Golan come al solito gli aveva dato appuntamento in una “casa sicura” a Netanya, una “beit mitvachim” sulla costa, ma il palestinese prima lo ha accecato con il pepe e poi lo ha accoltellato a morte. “The Gatekeepers” è senza precedenti perché mai prima di oggi così tanti funzionari della sicurezza si erano esposti al grande pubblico. Per quarantotto anni i nomi dei direttori dello Shin Bet sono addirittura rimasti segreti. “Un tempo non si poteva neppure dire ‘Shin Bet’ in pubblico”, dice Ehud Sprinzak, un esperto di terrorismo dell’Università ebraica di Gerusalemme. “Cinquant’anni fa l’establishment di sicurezza era una religione, e sotto la categoria ‘sicurezza’ si potevano fare molte cose. Non è più così”. “The Gatekeepers” è magistrale quando racconta di come gli agenti dello Shin Bet siano venuti a contatto con il “lato oscuro” della guerra al terrore. Come ha detto Rafi Malka, capo dell’ufficio operazioni in Libano, “per restare incolumi e sopravvivere, bisognava fare cose inaccettabili. Fu una lotta come nel selvaggio West e la gente ci rimetteva la vita se tentava di comportarsi in modo accettabile”. A molti agenti dello Shin Bet venne persino ordinato di sposare delle donne arabe per infiltrarsi nelle cellule. Di giorno erano arabi che lavoravano, partecipavano a riti religiosi in moschea, insegnavano il Corano ai figli. Di sera, in perfetto ebraico, aggiornavano il loro comandante ad Haifa. Si chiamano “agenti in sonno”. La scelta cadde su ebrei immigrati da paesi arabi, in particolare dall’Iraq. La vita dell’agente dello Shin Bet è durissima. Per questo nei primi cinque anni di servizio, un agente su quattro getta la spugna e cerca impieghi magari meno avventurosi e meno ricchi di adrenalina. I ritmi di lavoro sono massacranti anche per l’agente più motivato. Quindici ore al giorno non sono un’eccezione. “Lavoriamo da quando spunta il sole fino a quando esaliamo l’ultimo respiro”, hanno recriminato alcuni agenti. “Lavorare sul terreno – disse al quotidiano Hadashot un agente dello Shin Bet – è come camminare in un nido di serpenti. La tensione nervosa del ‘mestiere’ è tale che quando arriviamo a quarantacinque anni, l’età del congedo, siamo esauriti e non valiamo molto”. Per eliminare l’agente Oded Sharon, padre di tre figli, un dottorato in Criminologia, che lavorava nelle casbah, nei campi profughi, Hamas ha usato un infiltrato con indosso “mutande esplosive”. Hamas l’ha chiamata “Operazione puntura al cuore”. “The Gatekeepers” rievoca il caso dell’autobus numero 300. Nel 1996 un alto dirigente dello Shin Bet confessò di essere stato lui a uccidere per ordine dei suoi superiori i due palestinesi che il 12 aprile del 1984 avevano sequestrato i passeggeri di un autobus. Parlando con il quotidiano Yedioth Ahronoth, Ehud Yatom, 48 anni, capo di tre divisioni dello Shin Bet e fratello di un capo del Mossad (il servizio di spionaggio), ha fatto questa affermazione: “Sono orgoglioso di quello che ho fatto. Ho fracassato loro il cranio e mi creda che non mi sono nemmeno dovuto affaticare perché erano già mezzi morti. La guerra contro i terroristi ha lo scopo di impedire l’uccisione di innocenti. Sono necessarie azioni che non si uniformano con valori etici assoluti. Posso testimoniare che nella guerra contro i terroristi ho servito sotto quattro primi ministri. Solo le persone più pulite e morali dello Shin Bet possono fare ciò che è necessario in uno stato democratico”. “The Gatekeepers” è superbo nel dare voce al dubbio morale di chi preme il grilletto: “Ci sono operazioni super pulite e sterili, in cui solo il terrorista rimane ucciso, eppure c’è qualcosa di innaturale, è questo potere di prendere la vita di tre persone in un istante”, confessa Diskin. David Grossman dedicò un intero capitolo del suo “The Yellow Wind” a “Gidi”, un ufficiale dello Shin Bet in servizio in Cisgiordania, noto ai palestinesi come “Abu Deni”. Grossman raccontò la soffocante vicinanza fra gli agenti e i palestinesi, che è il cuore stesso di “The Gatekeepers”. Il “Gidi” di Grossman “sapeva con chiarezza che quando due mele si toccano nell’unico punto in cui una va a male, il marcio si propaga in tutte e due”. Come ha ben spiegato Chaim Baram, un giornalista di sinistra: “Uno dei grandi successi di Israele è stata la falsa distinzione fra quello che facciamo noi e quello che fanno gli altri. Uno della Cia è un ubriacone, oppure è corrotto. I piloti americani in Vietnam sganciano napalm sui pacifici abitanti dei villaggi. Ma i nostri agenti segreti sono personaggi eroici usciti dai libri di avventura con gli occhi celesti”. “The Gatekeepers” ci fa vedere in carne e ossa questi funzionari segreti. Come dice Yossi Ginossar, un ufficiale dello Shin Bet, “non esiste altra nazione al mondo i cui addetti al servizio di intelligence siano obbligati a raccogliere tante informazioni. I politici, gli ufficiali delle Forze armate, i giornalisti e i cittadini vorrebbero che la mano dell’intelligence fosse dappertutto – a Nabatiye nel Libano meridionale, nel campo profughi di Deheishe a Gaza, nei vicoli del campo di Balata in Samaria, nei comitati d’assalto a Gaza, fra i terroristi nel territorio stesso di Israele… Se non esistesse una decisione di stabilire l’ordine delle priorità, i servizi segreti israeliani affogherebbero in un mare di materiale”. Quello che il film non dice è che gli apparati di sicurezza sono cambiati molto. Il 30 giugno 1948 David Ben-Gurion affidò a Isser Harel, la più leggendaria spia israeliana, il compito di organizzare lo Shin Bet. Harel aveva fama di puritano. “Tutti gli immigrati parlano di nepotismo”, annotò il primo ministro nel suo diario. “Ed è difficile trovare una famiglia che non faccia acquisti al mercato nero. A casa di Isser non c’è niente da mangiare perché lui non lo fa”. Cinquant’anni dopo un altro capo dello Shin Bet, Yaakov Peri, avrebbe fatto palate di soldi come amministratore delegato di importanti corporation. Altri tempi. Com’erano altri tempi quelli di Amos Manor, il capo dello Shint Bet sopravvissuto ad Auschwitz che si negò così a una intervista: “Lei potrebbe essere anche Erodoto, a me non importa, non sono una fonte per il periodo in cui ero il capo del servizio di sicurezza”. Altri tempi, dicevamo. Ora si va a Hollywood. Il giudizio su questi funzionari dell’antiterrorismo non è unanime. Nel 2003 quattro dei sei capi immortalati in “The Gatekeepers” pubblicarono un appello a tutta pagina sul quotidiano Yedioth Ahronoth contro la “catastrofe” a cui Ariel Sharon avrebbe condotto il paese. L’ex presidente e fondatore dell’aviazione, Ezer Weizman, li accusò di essere come i “quattro moschettieri” e che avevano gettato disonore sul paese. Sul Jewish Press, il maggiore giornale ebraico americano, David Suissa ha dato voce allo scetticismo sul film. “Gatekeepers o Gate-crashers? Come ha fatto un film israeliano a diventare il darling dell’industria cinematografica e a ricevere persino una nomination all’Oscar?”. Al termine della prima del film, a Tel Aviv, una donna s’è alzata in piedi e rivolta verso Avi Dichter, presente in sala, ha esclamato: “Come ha potuto collaborare a questa cosa? Come ha potuto? Tutto il mondo lo vedrà. Si vergogni”. Una critica ingenerosa verso chi ha difeso gli ebrei dopo l’Olocausto, ma è vero che il messaggio del film, quello del ritiro unilaterale e del dialogo con la pistola puntata alla testa, è stato una ricetta disastrosa per Israele. Anche per questo, però, “The Gatekeepers” potrebbe aggiudicarsi una statuetta.

Per inviare al Foglio la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT