La strana alleanza con Oxfam
commento di Annalisa Robinson
Annalisa Robinson
Ha suscitato molte discussioni la decisione del Board of Deputies of British Jews (il piú importante organo rappresentativo degli ebrei inglesi, fondato 250 anni fa) di collaborare con il ramo inglese di Oxfam International, che si definisce “leader mondiale per le iniziative contro la fame e per la giustizia sociale”, con sedi in 90 Paesi e quartier generale a Oxford, dove è stata fondata nel 1942. Nel quadro del Progetto Grow-Tatzmiach, 30 esponenti del Board verranno addestrati da Oxfam a raccogliere fondi per “affrontare globalmente le ingiustizie nel sistema alimentare”; quindi, per sei mesi, presteranno opera di volontariato in organizzazioni del settore. In cambio, Oxfam UK si impegna a non invocare boicottaggi nei confronti dei prodotti fabbricati in Israele, a non sostenere gruppi che aderiscono a tali boicottaggi, e a non collaborare con organizzazioni che incitano alla violenza o si oppongono alla soluzione a due Stati. La violazione di questi condizioni comporterà automaticamente la fine del Progetto.
In teoria, niente di male, e infatti il Board ha votato a favore con una maggioranza di quasi due terzi. Il progetto fa parte di una piú ampia strategia di collaborazione con ONG non ebraiche, e in generale di incoraggiamento al volontariato da parte degli ebrei inglesi. La strategia è condivisa da altre organizzazioni ebraiche o vicine a Israele allo scopo quello di costruire un rapporto con queste ONG, contribuendo a cause che toccano la comunità ebraica e al tempo stesso cercando di modificare l'atteggiamento di queste organizzazioni nei confronti di Israele. Insomma, le intenzioni sono utopistiche ma buone.
Tuittavia, la scelta di Oxfam per un'iniziativa del genere ha sollevato molti dubbi anche all'interno – magistralmente illustrati da LIV LIV sul Jerusalem Post (http://www.jpost.com/Opinion/Columnists/Article.aspx?id=30129).
Infatti Oxfam ha (e rivendica con un certo orgoglio) un atteggiamento tradizionalmente ostile nei confronti di Israele, che si esprime in iniziative discutibili dalle connotazioni piú politiche che umanitarie. Qualche esempio:
• Le loro posizioni ufficiali sono spesso anti-israeliane per partito preso (si vedano i loro documenti http://www.oxfam.org.uk/~/media/Files/OGB/What%20we%20do/Countries%20we%20work%20in/OPT%20Israel/oxfam_position_opt.ashx e http://policy-practice.oxfam.org.uk/publications/on-the-brink-israeli-settlements-and-their-impact-on-palestinians-in-the-jordan-232131). Infatti si basano spesso su interpretazioni deliberatamente errate o selettive di documenti vari, o usano fonti poco credibili se non screditate o faziose: si veda a questo proposito l'eccellente lavoro fatto da NGO Monitor proprio riguardo a Oxfam (ad esempio http://www.ngo-monitor.org/article/oxfam_calls_for_violations_of_international_law). Ad esempio, Oxfam fa spesso riferimento alle “leggi internazionali” invitando addirittura, allo stesso tempo, alla violazione degli Accordi di Oslo, redatti e sottoscritti sia da Israele che dall'OLP, con gli USA e i governi europei in funzione di ”garanti”. Accordi secondo i quali Israele assume responsabilità per la Zona C e in generale il dovere di amministrare i territori sotto il suo controllo, garantendo ordine e pubblica sicurezza. Questo tipo di pubblicità negativa, se non di propaganda vera e propria, finisce per alimentare il conflitto e isolare Israele dalla comunità internazionale.
• Parte di questa propaganda è indiscutibilmente ignobile e disgustosa. Basti pensare ai poster presentati a Durban da Oxfam Belgio, che rappresentavano arance gocciolanti sangue, con la dicitura “I frutti di Israele hanno un gusto amaro: rifiutate l'occupazione della Palestina, non acquistate frutta e verdura israeliana”. Avendo suscitato l'indignazione generale, il poster era stato ritirato, ma lo si può vedere qui: http://philosemitism.blogspot.co.uk/2009_06_01_archive.html Come la vignetta di Gerald Scarfe pubblicata dal Sunday Times il 27 gennaio, evoca i libelli di sangue del Medio Evo e falsifica la realtà confezionando una “narrativa” di crudeltà e ingiustizia.
• Oxfam sostiene, direttamente o indirettamente, il boicottaggio nei confronti dei prodotti israeliani (BDS). Nel 2009 arrivarono al punto di interrompere il loro rapporto con l'attrice Kristin Davis, fino a quel momento loro testimonial, perchè aveva in qualche modo elogiato o reclamizzato i cosmetici Ahava, di fabbricazione israeliana. E nonostante Grow Tatzmiach, Oxfam continua ad applicare una specie di boicottaggio parziale, insistendo che le merci prodotte al di fuori dei confini anteriori al 1967 abbiano un'etichettatura diversa.
• Oltre a condannare come “illegale” la presenza israeliana a Gerusalemme Est, Oxfam ha addirittura rivolto un appello alla comunità internazionale per chiedere ufficialmente a Israele un “risarcimento per i danni causati durante l'Operazione Piombo Fuso e altre azioni militari”. Hanno anche invitato chi ha versato contributi a titolo individuale per i progetti “umanitari” danneggiati dall'IDF a chiedere un rimborso.
• Oxfam ha descritto la triste fine della flotilla diretta a Gaza nel 2010 come “una diretta conseguenza del blocco israeliano”, denunciando “l'uso sconvolgente della violenza e l'uccisione di civili” da parte israeliana. Al tempo stesso, però, Oxfam condanna la recinzione di sicurezza (il cosiddetto “muro”) che ha evitato l'uccisione di civili israeliani da parte di attentatori suicidi (si vede che i civili israeliani contano poco, visto che Israele viene considerata una specie di piccola Prussia militarizzata).
• Pur rivendicando un ruolo proattivo e pacificatore, i dirigenti di Oxfam intervengono direttamente con frasi ad effetto, senza curarsi delle conseguenze sul campo. Tipo: “la gente di Gaza vive nella prigione piú grande del mondo, ma ha ancora meno diritti dei carcerati”, pronunciata nientemeno che dal direttore esecutivo di Oxfam International, Jeremy Hobbs. Uno che trova facile scusarsi profusamente con Paesi democratici e campioni dei diritti umani come l'Arabia Saudita e l'ONU per stupidaggini come il furto e la rottura di una targhetta con il nome di quel Paese (leggere per credere: http://www.oxfam.org/en/pressroom/pressrelease/2010-07-28/oxfam-apologizes-incident-un-climate-meeting)
• Oxfam UK co-sponsorizza anche iniziative con enti e organizzazioni con un atteggiamento opaco, se non di sostegno, nei confronti di organizzazioni terroriste, quali il London Muslim Centre e Islamic Relief (al quale la Svizzera ha bloccato i conti correnti appunto per sospetti collegamenti al terrorismo internazionale).
• Dulcis in fundo, Oxfam ha sollecitato direttamente la revoca del boicottaggio di Hamas. In un discutibilissimo report pubblicato nel 2010 insieme ad altre 15 ONG (comprese Amnesty International e l'immancabile Pax Christi) si invita il Quartetto per il Medio Oriente (ONU, UE, USA, Russia) ad “avviare il dialogo politico con tutte le parti palestinesi”, Hamas compreso, visto l'esito della cosiddetta “fallimentare politica di distanziamento”. Praticamente un invito a legittimare gruppi terroristi antisemiti e antioccidentali. Il rapporto si può leggere qui, http://www.oxfam.org.uk/resources/policy/conflict_disasters/downloads/failing_gaza.pdf, completo con le dichiarazioni del sempre imparziale Jimmy Carter, che ignorando convenientemente bazzecole come Hiroshima, Nagasaki eccetera, afferma tra l'altro che “Mai prima d'ora nella storia una comunità era stata così martoriata da bombe e missili, quindi privata dei mezzi per ricostruirsi”.
L'acceso dibattito tra organizzazioni ebraiche britanniche e all'interno dello stesso Board sul progetto riflette le diverse scuole di pensiero nelle comunità della diaspora. Alcuni, come lo United Jewish Israel Appeal (UJIA, il cui ex leader aveva invitato gli ebrei inglesi ad esprimersi contro le politiche del democraticamente eletto governo israeliano) sono nettamente a favore di Grow Tatzmiach e della collaborazione con organizzazioni critiche nei confronti di Israele. I vantaggi? Il Board verrebbe percepito come piú “equilibrato” anzichè una lobby pro-Israele, e darebbe una dimostrazione di “apertura mentale” e impegno umanitario nei confronti di “tutta” la società; insomma, ci sarebbe anche un guadagno in termini di immagine.
Gli oppositori invece non capiscono perchè si sia deciso di collaborare proprio con Oxfam, viste le posizioni illustrate sopra, e sottolineano come la stessa Oxfam abbia affermato di non avere alcuna intenzione di modificarle. Soprattutto, però, si rendono conto che, anche se il progetto “migliora” l'immagine degli ebrei inglesi, la collaborazione con Oxfam danneggia Israele. Infatti potrebbe venire interpretata come un avallo, da parte del Board, delle controverse posizioni di questa ONG, un sottrarsi alla lotta contro la delegittimazione di Israele, che finisce per accentuare l'isolamento dello Stato ebraico. E' anche una questione di dignità: e infatti molti hanno espresso l'intenzione di non pagare le loro quote di sottoscrizione al Board.
Ha dato fastidio anche il fatto che vi sia stata una certa pressione sul Board perchè aderisse al progetto, anche da parte, ad esempio, dell'ambasciatore del Regno Unito in Israele. Appare oltremodo strano, come giustamente sottolinea Isi Leibler sul Jerusalem Post, che un funzionario dello Stato intervenga direttamente in un dibattito interno alla comunità ebraica inglese su un argomento delicato e dai risvolti importanti.
La comunità ebraica non ha bisogno di Oxfam: la generosità dei singoli e delle associazioni filantropiche è ben nota e si esprime attraverso una pluralità di canali. Rispecchia l'impegno umanitario di Israele, che a dispetto delle sue piccole dimensioni ha uno dei programmi di assistenza internazionale piú vasti del mondo. Lo si è visto in Ruanda, in Sudan, in Giappone e in Sri Lanka dopo lo tsunami, a New Orleans dopo l'uragano Katrina, ad Haiti dopo il terremoto: ospedali da campo, forniture mediche, vaccinazioni, assistenza ai rifugiati, ambulatori oculistici (attivi da decenni in Nepal, Mauritania, Liberia, Micronesia, Tonga). Senza distinzioni politiche o religiose. Ma stranamente non se ne parla.