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La Stampa Rassegna Stampa
08.02.2013 Usa: Joe Brennan (CIA) difende l'utilizzo dei droni
cronaca di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 08 febbraio 2013
Pagina: 15
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Brennan difende la guerra dei droni : 'È più umana'»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/02/2013, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Brennan difende la guerra dei droni : 'È più umana' ".


Maurizio Molinari                Joe Brennan

I droni sono una forma «più umana di guerra» anche se il loro impiego ha bisogno di regole più chiare: il mastino dell’intelligence John Brennan, 57 anni, affronta le audizioni al Senato per la conferma della nomina alla guida della Cia con la grinta che lo distingue, confermando di essere il regista della caccia ai terroristi con gli aerei senza pilota. Completo blu, camicia bianca, cravatta rossa e atteggiamento apparentemente dimesso, l’ex studente della Fordham University che ha appreso l’arabo nelle strade del Cairo e ha lavorato per 30 anni a Langley, si presenta alla commissione Intelligence del Senato con un testo scritto e una deposizione orale che vanno in un’unica direzione: la difesa della guerra dei droni e la promessa di 007 più impegnati a raccogliere informazioni nel mondo arabo.

Gli avversari liberal quattro anni fa riuscirono a impedirgli di guidare la Cia accusandolo di aver legittimato dopo l’11 settembre gli interrogatori con il «waterboarding» - l’affogamento simulato dei sospetti terroristi - e ora tentano di ripetere l’impresa, aggiungendo l’accusa del massiccio uso dei droni che ha portato la Cia a uccidere circa tremila persone negli ultimi quattro anni, inclusi tre cittadini americani in Yemen: l’imam di Al Qaeda Anwar al Awlaki, suo figlio di 16 anni e Samir Khan.

Se nel 2009 Brennan fece un passo indietro, rinunciando a Langley per diventare consigliere antiterrorismo alla Casa Bianca, ora l’approccio è tutt’altro. Consapevole di avere la solida fiducia del presidente Obama e il sostegno della «intelligente community» e di poter vantare la decimazione dei comandi di Al Qaeda, esordisce negando ogni avallo agli «interrogatori rafforzati» dopo l’11 settembre. Poi difende gli attacchi missilistici con droni Predator e Reaper, perché «sono una forma più umana di guerra» anche se «purtroppo, nonostante i nostri migliori sforzi, dei civili sono stati uccisi». Non è però un cedimento alle critiche dei gruppi per la difesa dei diritti umani, «perché questi errori sono stati rari, assai più rari di quanto molti affermino».

Quando Obama arrivò alla Casa Bianca, c’erano stati appena 50 attacchi di droni, che divennero 360 nei quattro anni seguenti. Brennan rivendica la scelta di averne fatto lo strumento preferito per braccare i terroristi, spiegando come vengono scelti gli obiettivi: «Si tratta di individui che pongono una minaccia imminente a cittadini e interessi degli Stati Uniti. Vengono selezionati a uno a uno attraverso un processo coordinato fra intelligence, militari, diplomatici ed altre agenzie».

L’uccisione dei tre americani in Yemen è stata frutto di tale processo e dunque non si tratta di una violazione della Costituzione, perché costoro erano «leader o associati ad Al Qaeda». Per avvalorare tale argomento la Casa Bianca autorizza, poche ore prima dell’audizione, la declassificazione del memorandum sulla giustificazione legale dell’eliminazione di cittadini americani arruolati in «forze associate ad Al Qaeda». Brennan dice però con chiarezza che la strategia dei droni ha bisogno di aggiustamenti. Anzitutto, «la Cia non deve espandere le attività paramilitari» e dunque in maggioranza questi attacchi dovranno essere «condotti dai militari» del Pentagono.

È una svolta che, assieme ai documenti declassificati da Obama, consente in prospettiva all’America di difendersi dal sospetto di illegalità internazionali, destinato a essere sollevato dalla task force Onu all’opera a Ginevra. L’altra promessa di Brennan è spingere la Cia a raccogliere più notizie sul terreno. «Serve più impegno nel mondo arabo» per comprendere le attuali rivolte e scongiurare il ripetersi di errori come quelli che hanno portato alla morte dell’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi.

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