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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Bruno Maida, La Shoah dei bambini 04/02/2013

La Shoah dei bambini                        Bruno Maida
Einaudi                                                    euro 29

Quanti conoscono la storia dell'ingegnere Israel Kalk? Nato nel 1904 in Lettonia, non potendosi iscrivere all'università in quanto ebreo, si trasferisce a Milano, da uno zio dentista, e studia al Politecnico. Nel 1928 si sposa con un'italiana, Giorgetta Lubatti, ed è uno dei novecento ebrei stranieri che dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali ha la possibilità di restare nel nostro paese. Nel 1939, dopo lo scioglimento voluto dal governo del Comitato assistenza ebrei di Milano, decide di aiutare i bambini ebrei di famiglie immigrate. Il primo incontro avvenne nei giardini pubblici, ovvero nel luogo dove solitamente i bambini trascorrevano l'intera giornata, lasciati soli dalle madri costrette a lavorare clandestinamente. «Kalk iniziò a parlare con loro, li invitò per una merenda in una vicina latteria, superando la comprensibile diffidenza». Ben presto quell'appuntamento venne ripetuto ogni giorno e il gruppo diventò sempre più numeroso. Così nacque la Mensa dei Bambini, che dal 15 ottobre 1939 offrì ai bambini ebrei stranieri presenti a Milano un pasto e assistenza medica (a una condizione però: che frequentassero le lezioni presso una scuola ebraica). Non solo: Kalk pensò anche ai loro momenti di svago, organizzando gite e picnic, procurandosi i biglietti per il circo e il cinema. Un anno dopo si contavano circa 6o ragazzini sotto i 14 anni che frequentavano la Mensa, e insieme a loro l'organizzazione cominciò a occuparsi anche dei profughi ebrei anziani e malati negli ospedali della città, fino ad estendere la propria attività ai deportati del campo di concentramento di Ferramonti in Calabria. Nonostante fosse caduto nel vuoto l'appello per ottenere fondi rivolto al cardinale Schuster, l'organizzazione si rafforzò e non mancarono anche tra i non ebrei, nella società civile milanese, aiuti e solidarietà, a cominciare dalla famiglia Olivetti. Kalk è stato un uomo giusto ed è uno dei pochi adulti di cui si parla distesamente in queste pagine. Perché questo libro si occupa essenzialmente di bambini, ed è stato scritto (qui sta la sua particolarità) da uno storico che si sforza di ricostruire quegli anni terribili provando con coraggio a guardare con i loro occhi le vicende della persecuzione antiebraica. Perché questo libro esiste? Si chiede Bruno Maida riprendendo l'interrogativo essenziale che Primo Levi rivolge a chiunque inizi un progetto di scrittura. «Nel mio orizzonte impossibile c'era l'idea di dare una voce a ognuno dei bambini che sono stati perseguitati». Perché non basta dare un volto a quelle vittime, occorre «restituire il più possibile l'insieme delle storie che i bambini ebrei vissero in una persecuzione che riguardò sia coloro che ebbero la sorte peggiore nelle camere a gas di Auschwitz, sia coloro - e furono la maggioranza - che si salvarono». Per questo è un libro pieno fino all'inverosimile di nomi di bambini. Dove dietro a ciascun nome c'è una storia diversa, che porta in superficie altre storie, di italiani spesso complici o spettatori passivi dell'arresto e della depor-tazione di circa novecento bambini ad Auschwitz, di cui solo pochissimi riuscirono a sopravvivere. E quelli che ebbero la fortuna di salvarsi impiegarono decenni prima di rompere il silenzio e trovare la forza per raccontare della loro infanzia. Come Arianna Szórény: questo è il nome della prima bambina deportata dall'Italia che ha reso testimonianza. Nel 1979, all'età di quarantasei anni. Maida ricorda che è stata Liliana Segre - deportata bambina ad Auschwitz - a regalargli una delle chiavi di lettura per intraprendere questo lavoro. E cioè che non si può entrare in quell'universo e provare a tradurlo in scrittura senza partire dallo stupore che c'era nei loro sguardi infantili di fronte ai nuovi mondi in cui stavano precipitando. Mondi segnati da cambiamenti radicali rispetto alla vita quotidiana fino ad allora conosciuta, e in cui tutto - affetti relazioni tempi spazi giochi scuola - a un certo punto non fu come prima. «La seconda ferita» s'intitola uno dei capitoli più intensi del libro. Negli anni Trenta i bambini ebrei in Italia erano all'incirca sette-ottomila. Di questi, novecento furono trasferiti nei campi di concentramento. E gli altri? Il libro insegue a un ritmo serrato frammenti di storie di sopravvivenza fatte di nascondi-menti e abbandoni, di paure e sospetti, dove loro, quei piccoli e tragici protagonisti, non sempre erano in grado di cogliere la portata degli eventi. È una seconda ferita dopo quella inferta dalle limitazioni imposte dalle leggi razziali. E che quasi sempre viene da loro percepita perché attacca e colpisce il linguaggio quotidiano. Ascoltando di nascosto i discorsi degli adulti, si accorgono che il mondo attorno a loro sta brutalmente cambiando con l'entrata in casa di parole o frasi mai sentite fino ad allora, come «retata», «rastrellamento», «tedeschi», «campo di concentramento», «caccia agli ebrei». Oppure di parole che improvvisamente assumono un altro significato, come la parola «scappare», che non è più legata a un'azione malvagia di cui dobbiamo provare vergogna. «Babbo, ma cosa abbiamo fatto di male noi per doversi nascondere, per dover scappare così?», chiedeva Anna Bedarida al padre. Il mondo diventa così ai loro occhi disordinato e il tempo un vortice che tutto distrugge. All'improvviso si abbandona la casa, e dentro la casa restano le loro cose e i loro giochi ormai inutili e secondari rispetto ai pochi oggetti che gli adulti decidono di portare con sé. Uno dei momenti più dolorosi che accomuna le tante schegge di vite offese qui narrate è la scoperta che padri e madri non sono più in grado di proteggerli. Per non dire poi del gesto più estremo: quello dell'abbandono. Come potevano comprendere che «a salvarli erano proprio coloro che compivano l'atto più assurdo e inaccettabile per un genitore»? Ma anche chi ebbe la fortuna di restare in famiglia, di salvarsi senza dover trovare rifugio in conventi, mo *** nasteri, chiese, canoniche, grazie all'aiuto e al coraggio di persone religiose, non poté fare a meno di subire l'imposizione del cambiamento del nome. Anch'esso fu un atto di violenza che per molti bambini restò incomprensibile. Scrive Maida: «Il mondo fu sconvolto d'un tratto e a Donatella andò via la voce, anzi la bambina sperò che fosse sparita per sempre, così nessuna parola sarebbe più potuta uscire dalla sua bocca e mettere in pericolo qualcuno». Donatella è Donatella Levi, nata a Verona nel 1939. Nel 1942 la famiglia abbandonò la propria casa e si trasferì prima nel casentino e poi a Roma. All'età di tre anni Donatella non si chiamò più Donatella Levi ma Maria Bianchi. Una sorta di doppia vita, insomma, ma non sempre controllatile. Come quel giorno in cui, in ascensore nella casa dei cugini insieme alla madre e a un gentile signore, alla cortese domanda dello sconosciuto di dirgli il proprio nome Donatella rispose: «Vuole il nome vero o quello falso?». Qualcuno doveva pur scriverlo un libro come questo: un intarsio di molteplici microstorie a volte racchiuse in poche frasi. Ed è un libro non di memoria ma di storia, con la s maiuscola. Sorvegliato e guidato da un forte senso della narrazione (basta leggere le prime pagine, che consiglio a tutti i dottorandi di Storia) e di attenzione verso il lettore. Anche in certe pagine dove è impossibile non restare paralizzati dalla pietà e dalla compassione. Chi lo leggerà, comprenderà subito quello che voglio dire. E comprenderà quanto deve essere costato scriverlo.

Massimo Bucciantini
Il Sole 24 Ore


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