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Egitto: il crollo del regime Analisi di Mordechai Kedar (Traduzione dall’ebraico di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz) Mordechai Kedar La società egiziana sembra sottoposta ad un processo corrosivo che sta minando il senso di unità e un comune destino, fin dall’inizio della “primavera araba” due anni fa. Questo processo è iniziato dopo che la Corte di Giustizia egiziana, cosa mai avvenuta prima, aveva condannato a morte 21 persone a Port Said, città portuale in prossimità dell’apertura a Nord del Canale di Suez, a causa del loro coinvolgimento nella morte di 74 tifosi durante una partita di calcio che aveva avuto luogo nel mese di febbraio del 2012. Quando la sentenza è stata resa nota, la folla si è riversata con rabbia nelle strade dando luogo a manifestazioni violente, nelle quali persero la vita più di quaranta persone, uccise da raffiche di mitra durante i funerali delle vittime uccise in precedenti manifestazioni. A parte ogni considerazione politica, il bilancio delle vittime testimonia che il valore della vita in questo paese densamente popolato, non è più un valore. Novanta milioni di uomini, donne e bambini vivono ammassati lungo la valle del Nilo e il suo delta, lungo il canale e le coste. Circa la metà vive sotto la soglia della povertà, già bassa in partenza, e circa un terzo in quartieri senza pianificazione urbanistica, in catapecchie di legno, senza acqua corrente, né fognature, elettricità o telefono, senza lavoro, senza speranza e senza futuro, dove abbondano criminalità, violenza, droga,alcool. Nelle manifestazioni a Port Said, c’erano slogan di secessione dallo Stato unitario. In uno di questi c’era una significativa rappresentazione grafica: i manifestanti sventolavano bandiere su cui avevano cambiato il colore della parte superiore, il rosso era diventato verde, un chiaro riferimento all’Islam, e al posto dell’aquila, al centro c’era il nome della città “Port Said”. Neppure il coprifuoco, imposto in città, era riuscito a calmare la folla scesa in strada. La polizia ha usato gas lacrimogeni, senza però alcun risultato, mentre l’esercito era appostato davanti ai palazzi governativi per difenderli dalla folla inferocita. Un gruppo locale che si fa chiamare “Youth Bloc di Port Said” aveva diffuso questo volantino: “Noi, popolo di Port Said, dichiariamo la fine del potere giuridico di Morsi: lui non è più il Presidente dell’Egitto. Chiediamo agli egiziani di esprimere la loro solidarietà alle famiglie delle vittime, uccise per le strade dalla polizia armata sotto gli occhi del governo egiziano. La gente di Port Said continuerà a resistere con coraggio, anche se, a seguito di queste manifestazioni, tutti i suoi figli dovessero morire”. Questa espressione, “la gente di Port Said”, più volte ripetuta nella dichiarazione, è la manifestazione dello stato d’animo dei cittadini. La domanda della gente di Port Said di separarsi dall’Egitto terrorizza i capi del governo egiziano, perché se davvero ciò accadesse, lo Stato perderebbe la sua principale fonte di reddito, cioè i diritti portuali pagati dalle navi che attraversano il canale. Se questo dovesse succedere, considerando la recente perdita del turismo e degli investimenti stranieri, l’Egitto cadrebbe immediatamente in bancarotta. Ci sono stati scontri di piazza anche nella città di Suez, in cui quattro delle cinque stazioni di polizia sono state date alle fiamme dalle masse inferocite. E a Ismailia, 18 persone sono rimaste ferite negli scontri. Nel tentativo di ridurre le manifestazioni, Morsi ha dichiarato lo stato di emergenza in tre settori del canale - Port Said, Ismailia, Suez - e ha imposto il coprifuoco per un mese,dalle 9.00 di sera alle 6.00 del mattino. Ma la rivolta contro lo stato di emergenza deriva dal fatto che il popolo egiziano lo identifica con il regime di Mubarak, visto che Morsi lo utilizza regolarmente. Perciò l’uomo della strada si chiede: qual è la differenza tra i due? In seguito alla pressione dell’opinione pubblica e al pericolo che la situazione possa ulteriormente deteriorarsi, Morsi ha annunciato che è disposto a riconsiderare la necessità dello stato di emergenza, e questo rivela la mancanza di fermezza da parte del Presidente. In Egitto ci deve essere un governo deciso a salvare lo Stato dal disastroso deterioramento del sistema. La prova dell’indebolimento del sistema pubblico egiziano è evidente nel nuovo fenomeno che di recente ha cominciato a essere presente nelle strade: in inglese si dice “black bloc”, ovvero gruppi di giovani che si nascondono il volto con cappucci neri, spesso disegnati con immagini orribili. Questi gruppi di giovani danno fuoco alle auto e alle stazioni di polizia, assaltano gli edifici delle istituzioni governative, con l’intenzione di far cadere il regime dei Fratelli Musulmani. Nell’opinione pubblica egiziana, circolano strane voci circa la lorol ideologia politica. Per esempio, che rappresentano ciò che rimane del regime di Mubarak, oppure bande criminali che approfittano del caos,ma ci sono anche voci che siano agenti del Mossad israeliano, il cui obiettivo è quello di portare il mondo arabo in uno stato di confusione totale. In ambito politico, contro Morsi e i Fratelli Musulmani si sta muovendo il “Fronte di Salvezza Nazionale”, composto di un certo numero di partiti dell’opposizione, alla guida di Muhammad El Baradei e Hamdeen Sabahi. A causa dell’aggravarsi della situazione, nei giorni scorsi il Presidente Morsi ha cercato di parlare con loro al fine di stabilire una posizione che potesse essere accolta a livello nazionale, ma i capi dei partiti di opposizione si rifiutano di incontrarlo. Il loro rifiuto è visto come espressione di “sfiducia” nei suoi confronti a causa di quanto è avvenuto dopo la sua elezione. Chiedono la formazione un governo che comprenda tutti i partiti, laici compresi, al fine di modificare la Costituzione islamista, che concede troppa autorità al Presidente e il licenziamento del Procuratore Generale. Chiedono che “Morsi si assuma la responsabilità per il sangue egiziano versato per le strade, e l’impegno a tenere a freno i Fratelli Musulmani, assoggettandoli alle leggi del paese." Pensieri cupi per quanto riguarda la rivoluzione La settimana scorsa, in condizioni di estremo imbarazzo, l’Egitto ha ricordato il secondo anniversario della rivoluzione. Sotto il regime di Mubarak il popolo egiziano soffriva per l’oppressione e la corruzione, molti vivevano in miseria, ma la gente non veniva uccisa per le strade. Vi erano stati alcuni casi di abusi da parte della polizia, che avevano provocato anche dei morti, ma avveniva di rado. Oggi, dopo che la rivoluzione “democratica” ha fatto cadere Mubarak e la sua banda, la vita in Egitto è assai più misera. Milioni di persone che ai tempi di Mubarak vivevano di turismo, oggi sono disoccupate, e gli investimenti stranieri, che in passato avevano permesso a molti di lavorare e guadagnarsi da vivere, oggi sono scomparsi, facendo così aumentare, ancora di più, la disoccupazione. L’International Bank ha condizionato i suoi prestiti con la riduzione delle sovvenzioni per quanto riguarda il pane, ma Morsi ha paura di aumentarne il prezzo, a causa delle rivolte che scoppierebbero nelle strade e perché la gente lo accuserebbe per non essere in grado di acquistare per i propri figli neppure il cibo più essenziale, il pane. D’altra parte, se non si annullano o almeno riducono le sovvenzioni, l’Egitto andrà in rovina, il prezzo del cibo aumenterà e la gente scenderà in rivolta per le strade. Lo scorso agosto, dopo l’attacco a Rafah, in cui furono uccisi 16 soldati egiziani, Morsi ha destituito il Ministro della Difesa Tantawi e con lui una lunga lista di alti ufficiali dell’esercito. Alla domanda che ne seguì: “Perché Tantawi e gli ufficiali hanno accettato di essere licenziati senza obiezioni?” la risposta era chiara allora, ma lo è ancora di più oggi: “Dal momento che sapevano qual’era la reale situazione economica dell’ Egitto, consegnarono di buon grado il paese a Morsi, in modo che il disastro sarebbe stato imputato a lui e non a loro”. Si sentivano come topi in fuga da una nave che affonda. Esprimiamo la speranza che il popolo egiziano possa trovare una via d’uscita dalla complessa crisi in cui si trova, e che possa emergere un gruppo di leader in grado di guidare la traballante nave egiziana verso lidi sicuri. Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. |
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