Sulla STAMPA di oggi, 03/02/2013, a pag.11, con il titolo "Torneremo a casa quando Assad se ne sarà andato" (troppo rassicurante, di fronte a un'immane tragedia), il reportage di Francesca Paci dalla Giordania. Interessante quando riferisce l'atteggiamento del governo giordano verso i profughi palestinesi, nel paese ce ne sono già troppi, quindi ai nuovi arrivati giusto il tempo per rimanere quel tanto che basta e poi dietro front. Nessun rimprovero alla Giordania, un criterio che non viene mai applicato a Israele, che nei confronti dei palestinesi ha solo doveri.
Perché il mondo sta lì, muto, a guardarci morire? A Daraa i combattimenti sono ormai violentissimi, si esce di casa solo per cercare un po’ di pane e spesso non si fa ritorno». Rezaq Nasser è scappato un mese fa con l’aiuto dei ribelli ma è stato colpito mentre correva a testa bassa nei 600 metri di terra di nessuno che separano la frontiera siriana da quella giordana. Ha perso la gamba sinistra e qui, al secondo piano dell’Islamic Hospital di Amman dove 50 dei 300 degenti sono suoi connazionali, pianifica la fuga del padre, la madre e i due fratelli: «Rientreremo tutti quando il Paese sarà libero». Nel frattempo ostenta la sciarpa rossa, bianca e nera con cui ha fermato l’emorragia sulla spalliera del letto, il Corano sul comodino e la certezza di sopravvivere all’odiato Assad nello sguardo del ventenne che venera la resistenza armata e verosimilmente ne ha fatto parte.
Da settimane i vialoni di Amman sono pieni di targhe bianche e nere siglate Damasco, Homs, Aleppo. Solo un quinto degli oltre 300 mila rifugiati siriani entrati in Giordania dai 3 varchi ufficiali e dai 20 illegali vive nel campo profughi di Zaatari, un centinaio di km a nord della capitale. Gli altri sono sparsi qua e là, ospiti di parenti, ammassati in camere in affitto, in ospedale. Li riconosci dalle ciabatte ai piedi e se ne vedono sempre di più nelle strade giordane: dall’inizio del 2013 sono arrivati al ritmo di 9, 10 mila al giorno, 24 mila bambini. Un esodo che sommato a quello verso il Libano, l’Iraq, la Turchia rischia di far raddoppiare la cifra di un milione di profughi azzardata dalle Nazioni Unite.
«La polizia di Assad mi ha arrestato tra Daraa e Damasco a settembre, tre mesi dopo che ero tornato da Riad, dove faccio il cuoco» racconta il 32enne Abu Mohammed che, come molti, fornisce un nome di fantasia per paura di ritorsioni su moglie e figli. Pilucca controvoglia i dolci serviti nel caffè al centro di Amman e mostra i polsi segnati dalle cicatrici: «Mi hanno tenuto tre giorni a testa in giù senza mangiare, volevano che confessassi d’essere una spia perché avevo la patente saudita. Poi mi hanno portato a Damasco, una cella di 4 metri per 4 divisa tra 60 persone. Ci davano un pezzo di pane e due olive, ogni tre ore ci picchiavano. È durata due mesi e dieci giorni, sono passato da 95 a 60 chili, poi ho pagato 700 euro ai secondini e mi hanno lasciato andare. Il seguito, a quel punto, era scritto: «Con i ribelli ho portato la mia famiglia da Daraa alla zona liberata di Misr el Arir e il 28 dicembre ho varcato il confine. All’inizio il campo di Zaatari mi sembrava un sogno ma è durato poco: l’inverno è duro, in quelle condizioni possono resistere solo i più poveri, donne, bimbi, e ogni tanto, nel tentativo di scaldarsi con il kerosene, incendiano una tenda. Così ho dato 50 euro ai guardiani e sono fuggito, ora divido una stanza con 7 connazionali, 150 euro al mese senza acqua né luce».
Zaatari, con i suoi 80 mila ospiti stipati tra tende e container, le mense, gli ospedali, tra cui quello ottimo donato dall’Italia, è un miraggio prima del quale la vita è una scommessa ma dopo il quale non si scommette più.
«I primi tempi c’era tensione, ci picchiavamo. Poi ci siamo ingegnati, noi siriani siamo commercianti e sul viale principale di Zaatari abbiamo improvvisato bancarelle, pane, torce, il mercato nero prospera dando l’illusione di una routine a giudicare dalle 2800 donne incinta» spiega il 28enne Hani bin Rifah che però, un mese fa, se n’è andato. Un amico giordano ha garantito per lui e adesso tira avanti con lavoretti di fortuna alla periferia di Amman: «Non posso stare troppo in piedi a causa del diabete ma sono fortunato, non avendo sensibilità ai piedi non sentivo le scosse elettriche che mi davano gli uomini di Assad e sono riuscito a non confessare di essere il terrorista che non sono».
Per i siriani del Sud i 378 km di confine che li separano dalla Giordania sono l’orizzonte, un futuro incerto ma pur sempre fuori dal tiro dei cecchini. Re Abdallah II mantiene una posizione «neutra» verso Damasco (che gli è costata l’amicizia di Qatar e Arabia Saudita), ma lascia le porte aperte ai fuggiaschi. Ai siriani, almeno. Sì, perché come rivela un volontario dell’ospedale di Mafraq, non tutti gli esuli sono uguali: «La linea rossa sono i palestinesi, metà della popolazione giordana. Mentre i siriani sono stranieri, i palestinesi sono cittadini e accoglierli qui sarebbe una minaccia per l’identità nazionale. Quelli che riescono a passare vengono rimandati indietro appena cessa il fuoco, ce ne sono circa 450 in una base sulla frontiera in attesa di essere rispediti di là».
Il marzo caldo di due anni fa, quando il vento di Tahrir ha travolto la Siria sembra lontanissimo. Nella cucina di un ristorante per giordani benestanti Hassan lava i piatti con le mani rosse e gonfie, guadagna 250 euro al mese e ne manda 150 ai genitori a Daraa: «Nessuno di noi pensava alla rivoluzione, siamo beduini e non sapevamo cosa accadesse in Egitto. Scendemmo in piazza per chiedere il rilascio dei 16 bambini arrestati per aver scritto sui muri “libertà” e ci spararono. Nelle settimane successive andavo in bus a Damasco per lavorare e quando il controllore capiva che ero di Daraa mi davano del terrorista e venivo picchiato. Per questo ho pagato 350 euro per cambiare la data di nascita sui documenti e ritardare il militare il tempo necessario a scappare». Era giugno 2011, un secolo fa.
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