Sul FOGLIO di oggi, 02/02/2013, a pag.3. con il titolo "Perchè l'Iran vende il doppio del petrolio in tempo di sanzioni", Luigi De Biase analizza le vendite del petrolio iraniano. Una smentita alla validità delle sanzioni.
Roma. Ci sono petroliere pronte a salpare per la Cina e uomini d’affari che viaggiano fra il medio oriente e la Corea carichi di contratti e carte bollate. E’ così che il governo iraniano cerca di schivare le sanzioni dell’Ue e degli Stati Uniti contro il suo programma atomico, un piano clandestino e minaccioso che mette in pericolo l’occidente e i paesi arabi della regione. Gli ultimi dati li ha forniti Reuters e sembrano buoni per la Repubblica islamica: a dicembre l’Iran è riuscito a vendere un milione e 400mila barili di petrolio al giorno, il livello più alto da quando esistono le sanzioni europee. Sono state superate persino le stime della Iea, l’autorithy dell’Onu per l’Energia, che aveva sì previsto un aumento dell’export, ma credeva che la quota di barili iraniani non avrebbe mai superato la soglia del milione al giorno. Questo sforzo non è privo di costi: il governo di Teheran è costretto a investire buona parte delle entrate sulla flotta mercantile, e alcuni sostengono che abbia anche ridotto il prezzo del greggio pur di riuscire a vendere. Chi sono i clienti degli ayatollah? La quota maggiore della produzione finisce in Cina, che a dicembre ha importato 600mila barili al giorno dai depositi iraniani di Khark e Lavan. La comunità internazionale non prevede sanzioni per gli scambi fra Teheran e Pechino, quindi i due governi possono mantenere rapporti commerciali quasi normali. Il “quasi” dipende dall’Ue e dagli Stati Uniti, che cercano di bloccare quella rotta alzando la pressione sugli armatori, sulle compagnie assicuratrici e sulle banche che lavorano con l’Iran. Per gli europei è diventato impossibile accettare incarichi senza incorrere in sanzioni, ed è per questo che la Repubblica Islamica ha avviato un programma costoso per l’acquisto di petroliere: proprio nei cantieri cinesi avrebbe comprato i tanker che servono a consegnare il greggio in Asia senza ritardi e senza l’aiuto di società straniere. Assieme alla Cina ci sono l’India, il Giappone, la Turchia e gli Emirati arabi, paesi che ancora riescono a navigare nella zona grigia fra rapporti leciti e scambi illegali. Ma oltre ai governi ci sono i clienti di ritorno, i gruppi privati che avevano lasciato gli affari iraniani di fronte al pericolo delle sanzioni e oggi rivedono le strategie per colpa della crisi economica. Samsung Total, una compagnia petrolchimica con base in Corea del Sud, ha interrotto i rapporti con Teheran nel 2012 ed è passata in pochi mesi alle forniture di petrolio australiano, il cosiddetto North West Shelf (Nws). Ma quel greggio costa in media uno o due dollari al barile in più rispetto al condensato Kangan che si produce in Iran, e il cambio ha avuto ripercussioni pesanti sui bilanci della società (circa 6,7 milioni di dollari, dicono gli analisti). La scorsa settimana Samsung Total ha deciso di tornare al petrolio di Teheran, sfruttando una finestra di sei mesi negli scambi con l’Iran che gli Stati Uniti hanno concesso a Seul. Il canale del greggio è decisivo per il regime degli ayatollah, ma si tratta di un affare sempre più complesso. Le sanzioni stanno sfiancando l’industria, in teoria i giacimenti di petrolio possono produrre quattro milioni di barili al giorno, ma in pratica devono rallentare perché i depositi sono pieni e vendere è sempre più difficile. Nel 2012 le autorità hanno usato le petroliere come depositi galleggianti in attesa che arrivassero ordini, dato che le cisterne di Khark e Lavan erano già colme. Alla fine del 2012 il governo ha abbassato la percentuale di bilancio che sarà coperta con le esportazioni petrolifere, destinate a rimanere intorno al milione di barili al giorno, circa un quarto della capacità produttiva. Per riuscire a piazzare il greggio, gli iraniani sarebbero disposti persino a ragionare su listini e quotazioni, una mossa estrema per un paese che è da sempre fra i falchi dell’Opec.
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