Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 29/01/2013, a pag. 15, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo "Timbuctù liberata, Al Qaeda brucia l’antica biblioteca".
Domenico Quirico
Dopo Gao, Timbuctù: un’altra ghiotta preda è caduta nelle mani dei soldati francesi e degli alleati maliani. La regina delle sabbie, con il suo mito secolare e polveroso, è stata liberata dai tecnologici «pioupious» dell’armata inviata da Hollande. È la seconda volta: nel 1894, in tempi esplicitamente coloniali, furono i soldati di Joffre, futuro eroe della Marna. Li accolgono gli evviva degli abitanti neri, esausti per i rigori, a loro estranei, di quasi un anno di sharia, e dei tuareg rimasti, che sperano con l’entusiasmo di evitare le annunciate vendette.
I ribelli del Nord e i loro alleati-padroni di Al Qaeda anche questa volta, come a Gao e a Diabaly, si sono ritirati senza opporre resistenza: lo ha confermato anche lo stato maggiore francese dopo la presa dell’aeroporto a 3 chilometri dalla città: «Non c’è stata battaglia, Timbuctù è tranquilla e sicura». Il lancio di paracadutisti della Legione alle spalle della città non è servito a chiudere la tenaglia sugli avversari che si sono disimpegnati annullandosi nel deserto, verso i loro bastioni del Nord. Come dice un proverbio arabo «la fuga al momento opportuno è una vittoria». Prima di partire hanno dato fuoco, ultimo sfregio, all’istituto «Ahmed Baba», dove sono conservati ventimila manoscritti antichi di ottocento anni, trattati di religione diritto scienza: la sapienza, l’unica vera meraviglia di questa capitale decaduta ormai da secoli.
«Controlliamo tutto l’anello del Niger» ha sentenziato il comando francese. La prima parte della guerra del Mali è finita. Un successo di immagine indiscutibile per la Francia che l’ha condotta sola, con l’esitante appoggio dei paesi della zona: un solo morto, nessun tragico spreco di piccole vite eroiche, avanzate scenografiche per tv e incantati elettori della Francia profonda, un rinsaldato prestigio presso le clientele della Françafrique. Un capitale che renderà.
Ora inizia la vera guerra, che i francesi contano di africanizzare per non correre rischi: cambia lo scenario, che saranno le montagne del Nord, e la strategia, ora più favorevole al nemico. Il nuovo Afghanistan infatti si nasconde in fondo al deserto. Non è sfuggito che la riconquista delle città non ha coinciso con l’annientamento del nemico jihadista, unica condizione della vittoria. Non ci sono prigionieri, manca una contabilità delle perdite inflitte all’avversario: segno che non sono esaltanti. La guerra in Mali, quindi, non è neppure iniziata. Al Qaeda e i tuareg convertiti all’integralismo di Ansar Dine sapevano di non poter contendere le città ai mezzi aerei e blindati francesi. Hanno guadagnato tempo per ridispiegarsi nel loro terreno: uno dei luoghi più tenebrosi della terra, prima le lande steppose e poi la sabbia e le montagne.
È l’Hair: un intrico di canaloni, colate di lava nera, letti di «oued», valli strettissime imprevedibilmente sbarrate da pareti di basalto, dove c’è acqua ma è conosciuta solo dai tuareg. È questa la terra degli Iforas una delle grandi tribù del deserto. Per loro la vita è un attimo. È la loro forma di eternità. Qui combatteranno come chiedeva Koacen, il Garibaldi tuareg che guidò il grande jjhad all’inizio del Novecento: come lupi e come sciacalli, che ogni volta che colpiscono fuggono e tornano di nuovo per combattere, strappano un boccone e tornano ancora, la guerriglia, i colpi bassi. Qui sono le distanze e il terreno che diventano decisivi, più delle armi. Ci sono millecinquecento chilometri di distanza, in linea d’aria, tra l’estremo Nord-Ovest e la frontiera del Niger, 1100 per arrivare a Kidal, la città culla della ribellione e zona dove i tuareg sono maggioranza. Siamo al limite della possibilità operativa degli elicotteri, non ci sono aeroporti, bisogna rifornire l’armata che avanza via terra. È oneroso per i poveri mezzi degli eserciti africani e si presta alle imboscate.
Qui non valgono le regole belliche che insegnano Saint Cyr; semmai quelle inventate dal celebre comandante dell’armata ciadiana nel 1987, Hassan Djamous, che distrusse con poveri mezzi l’esercito di Gheddafi. La strategia è fatta di attacchi rapidi e di accerchiamenti con colonne di pick up armati e in grado di rifornirsi in depositi nascosti nelle sabbie del deserto con benzina acqua e munizioni, fatta di attacchi coordinati, grande mobilità e sanguinose imboscate. I reduci della guerra libica che formano il nucleo dell’esercito ribelle l’hanno imparata alla perfezione; così hanno annientato l’esercito del Mali il marzo dello scorso anno. Ora attendono i «crociati» francesi.
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