Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/01/2013, a pag. 16, l'articolo di Massimo Alberizzi dal titolo "Gli islamisti si dileguano. Riemerge Timbuctù", a pag. 1-28, l'editoriale di Angelo Panebianco dal titolo " Il mal d'Africa degli europei ".
Ecco i pezzi:
Massimo Alberizzi - " Gli islamisti si dileguano. Riemerge Timbuctù "


Massimo Alberizzi
BAMAKO — Le truppe francesi dell'operazione «Serval» e quelle maliane sono alle porte della mitica Timbuctù, stanno mettendo in sicurezza Gao, mentre i Mirage bombardano l'obiettivo militarmente più importante, Kidal, città sahariana ancora più a nord a 1500 chilometri da Bamako, dove si sono raggruppati gli islamisti e i loro capi. La notizia diffusa ieri mattina da fonti ufficiali dell'esercito francese secondo cui sarebbe colpita e distrutta l'abitazione del leader tuareg di Ansar Dine Iyad ag Ghali non è stata confermata da fonti indipendenti, giacché in tutto il nord del Mali la rete dei telefoni cellulari è stata disattivata e a nulla sono valsi i tentativi di raggiungere i telefoni satellitari. Anche l'elettricità è saltata e non è facile ricaricare gli apparecchi.
Comunque è opinione comune che i leader dei gruppi fondamentalisti, Mujao (Movimento per l'Unicità e la Jihad in Africa Occidentale), Aqmi (Al Qaeda per un Maghreb Islamico), e Ansar Dine siano tutti già scappati sulle montagne e nel deserto.
Timbuctù, la mitica città dei 333 santi, dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità, i cui preziosi e antichi monumenti sono stati distrutti dalla furia iconoclasta dei fanatici di Allah, cadrà oggi all'alba. Ieri pomeriggio dentro l'abitato sono entrati soltanto pochi uomini dell'avanguardia in ricognizione. «Pensare di resistere ai bombardamenti aerei francesi è pura follia — spiega Serge Daniel, giornalista e scrittore, autore del libro Aqmi, L'industrie de l'enlèvement (Aqmi, l'industria del rapimento), un'analisi profonda del fenomeno islamico nel Maghreb —. Invece più a nord dove i confini di Mali, Algeria, Mauritania si mescolano nella sabbia i radicali possono trovare la protezione della natura e delle popolazioni locali».
Secondo Serge Daniel, i leader islamici hanno già fornito i loro santuari di riserve d'acqua, carburante e arsenali nascosti tra le dune o nelle grotte delle montagne. Si rifugeranno da qualche parte e continueranno il loro lavoro a metà tra il criminale e il religioso: «Anche se la casa di Iyad ag Ghali è stata distrutta c'è da scommettere che lui era già scappato».
Al seguito delle truppe francesi e maliane sono arrivati anche i soldati inviati dall'Ecowas, la comunità economica dell'Africa Occidentale: togolesi, ghanesi, burkinabé, beninesi, nigerini, nigeriani. Presenti in Mali, a Gao, anche i ciadiani che non fanno parte dell'organizzazione e ieri ad Addis Abeba all'assemblea annuale dell'Unione Africana Hailemariam Desalegn, primo ministro dell'Etiopia, che andrà a presiedere l'organizzazione per il prossimo anno, ha promesso che saranno inviati altri 600 uomini. Per altro Thomas Boni Yayi del Benin, il Paese che ha avuto la presidenza dell'Ua fino a ieri, ha criticato se stesso per la lentezza con cui ha reagito e ha elogiato il coraggio francese difendendo l'intervento armato.
Ieri gli Stati Uniti hanno deciso di appoggiare logisticamente l'operazione «Serval». Sono stati messi a disposizione aerei cisterna americani per rifornire in volo i Mirage francesi, durante le loro missioni contro le posizioni dei ribelli islamici. Gli aerei sono già operativi dalla notte scorsa e hanno già compiuto le prime missioni. Non atterreranno in Mali, se non eccezionalmente, ma partiranno da basi europee, come ha fatto sapere un ufficiale all'aeroporto di Bamako. Finora l'intervento americano si era limitato a scambiare informazioni di intelligence e al trasporto della fanteria dalle basi in Francia a Bamako.
Angelo Panebianco - " Il mal d'Africa degli europei "

Angelo Panebianco
C'è un qualche rapporto fra quanto accade in Mali e l'integrazione europea? Lasciare sola la Francia nella nuova guerra africana ha allontanato la realizzazione dell'Europa politica oppure fra le due cose non c'è alcun rapporto? Domande come queste cadono al di fuori del consueto repertorio di idee e ragionamenti di cui si nutre il senso comune europeista.
Bisogna chiedersi: cosa potrebbe dare la spinta necessaria per realizzare l'unità politica europea? Davvero è sufficiente il desiderio di stabilizzare la moneta comune, di mettere in sicurezza i livelli di benessere raggiunti? Anche il manifesto pubblicato due giorni fa da questo giornale a favore di una Europa unita, e che porta in calce la firma di illustri intellettuali europei, non si discosta dalla tradizione, non chiarisce i motivi per cui dovremmo fare questa benedetta Europa unita: vi si dice solo che altrimenti l'Europa uscirebbe dalla Storia (un argomento troppo vago per mobilitare le persone) e, più prosaicamente, che non si riuscirebbe a salvare l'euro.
Ma una reazione chimica così potente e drammatica quale quella che è sempre presente nella nascita di una nuova comunità politica, non si produce in quel modo. Le unificazioni politiche avvengono, quando avvengono, soprattutto perché rese necessarie da minacce alla sicurezza, alla vita, talvolta alla libertà, di centinaia, migliaia, o milioni, di persone coinvolte.
C'è una ragione che spiega perché gli europeisti militanti glissino sulla questione della sicurezza: ha a che fare con le condizioni in cui prese l'avvio e poi si sviluppò, durante la Guerra fredda, l'integrazione europea. Quel processo fu reso possibile dal fatto che la sicurezza europea era, all'epoca, appaltata agli Stati Uniti e al suo braccio militare, la Nato. Non dovendo occuparcene direttamente e autonomamente ci abituammo a pensare a una integrazione europea disancorata dalla sicurezza. Nacque così anche la leggenda secondo cui l'unità politica sarebbe un giorno arrivata, quasi automaticamente, come coronamento dell'integrazione economica, come una mela matura che cade dall'albero: un modo, non dissimile da quello che un tempo veniva detto marxismo volgare, di trattare la politica quale mera sovrastruttura dell'economia.
Non è così e ora che la sicurezza degli europei — per un insieme di ragioni che vanno dal declino della potenza americana alla natura delle nuove minacce alla sicurezza — non può essere più appaltata (o almeno non del tutto), sarebbe bene svegliarsi, cambiare registro.
Nulla dovrebbe dimostrarlo meglio di quanto sta accadendo fuori dai confini dell'Europa, in aree ove sono in gioco aspetti vitali della sicurezza europea. Dodici anni dopo l'attacco dell'11 Settembre, appare chiaro che il mondo occidentale sta perdendo la battaglia per contenere la diffusione dell'islamismo radicale. Né la strategia di Bush né quella di Obama, pur diversissime, hanno dato i frutti sperati. In Afghanistan e in Pakistan la minaccia non è stata affatto debellata. Per parte loro, le rivoluzioni arabe, che tante speranze avevano suscitato, hanno accresciuto il pericolo.
Nel più importante Paese arabo, l'Egitto, l'opposizione si scontra ormai quasi quotidianamente nelle piazze con il governo islamista, democraticamente eletto ma già nel mirino di Amnesty International per le continue violazione dei diritti umani. Nel frattempo, i salafiti dilagano nell'Africa subsahariana (aiutati anche dalla dabbenaggine esibita da noi occidentali nella vicenda libica). Cercano di creare nuovi Afghanistan in grado di minacciare chiunque, europei inclusi, ostacoli il loro disegno espansionista.
La questione del Mali è diventata un test per capire che razza di Europa avremo in futuro. Abbiamo scelto di lasciare sola la Francia (dandole, al più, qualche sostegno logistico). In questo modo, l'intervento francese ha assunto le sembianze di una azione neo-coloniale volta soprattutto alla protezione degli interessi che Parigi coltiva in Niger e altrove. Avevamo una alternativa: prendere atto del vitale interesse europeo al contenimento dell'islamismo radicale, ammettere che spettava alla (potenziale) «comunità politica» europea nel suo insieme sventare la minaccia, «europeizzare» l'intervento militare in Mali (magari anche, a combattimenti conclusi, per dare qualche ragione di speranza ai Tuareg e aiutarli a liberarsi dall'abbraccio con gli islamisti). Per come si sono messe fin qui le cose, la Francia ne trarrà motivo per ribadire la propria indisponibilità all'unificazione politica in nome della Grandeur che essa continua a coltivare. Se avessimo fatto una diversa scelta, avremmo forse creato le condizioni per una maggiore solidarietà fra europei. Non sarebbe stato sufficiente per fare l'Europa unita, ma avremmo almeno cominciato a pensarci come una «comunità di destino» (necessaria pre-condizione dell'unificazione).
Alle minacce si può rispondere in due modi. Si può fronteggiarle, impegnarsi in un vigoroso «bilanciamento» nei confronti delle forze sfidanti. Oggi, ciò richiederebbe dall'Europa uno sforzo collettivo. Oppure, si possono blandire le forze minacciose e cercare un accomodamento. È la strategia del bandwagoning (saltare sul carro del vincitore). Non richiede sforzi unificati e coordinati. Ciascuno la può praticare per suo conto.
Per quanto sia scomodo, fastidioso e, forse, politicamente scorretto, di queste cose dovrebbero finalmente occuparsi coloro che credono nella necessità di una Europa unita.
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