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Lettura/Corriere della Sera-Domenica/IlSole24Ore Rassegna Stampa
27.01.2013 Letture per il Giorno della Memoria
L'archivio di Moscati, un'infanzia ad Aushwitz, gli italiani e la Shoah

Testata:Lettura/Corriere della Sera-Domenica/IlSole24Ore
Autore: Draia Gorodisky-Giulio Busi-Domenico Scarpa
Titolo: «Quattro secoli nell'archivio di Francheto-Infanzia ad Auschwitz-Come abbiamo visto la Shoah»

I giornali sono pieni di articoli che ricordano il Giorno della Memoria, commemorare il ricordo degli ebrei massacrati nella Shoah è diventato un rito, che spesso esime dal farsi altri esami di coscienza. Ad esempio, come ricorda Giulio Meotti, in un commento che pubblichiamo oggi, la "soluzione finale n°2 ". L'Europa, già responsabile della prima, non sta facendo nulla per evitare che la seconda accada in Israele. 
Pubblichiamo tre recensioni uscite oggi, 27/01/2013, su LETTURA, del CORRIERE della SERADOMENICA del SOLE24ORE.

La Lettura/Corriere della Sera-Daria Gorodisky: " Quattro secoli nell'archivio di Francheto"

Gianfranco Moscati

"Francheto, se i te ciapa, i te !! copa!". Il suo datore di lavoro, uno spedizioniere trentino, gli diceva così mentre le truppe naziste entravano in Italia. E il 1943, e passa poco prima che lui, Gianfranco Moscati, sia costretto a scappare davvero. Certo, quella che chiama «la mia guerra» era cominciata ben prima, con le leggi razziali del 1938, l'espulsione da scuola per lui e dal lavoro per i familiari. Ma non ha ancora 19 anni quando lascia la sua Milano, la famiglia, l'amata casa di uno stabile popolare in viale Certosa e riesce a entrare in Svizzera. Resta in un campo di lavoro fino al 26 aprile del '45. Poi piano piano riprende a fiorire la vita. E Moscati comincia a raccogliere ogni tipo di documento relativo a ebraismo e Shoah. Da allora a oggi ha messo insieme migliaia e migliaia di editti, grida, testi ufficiali, lettere, francobolli (è anche un noto filatelico), oggetti, giornali, libri: tutti pezzi della storia che va da metà del 1500 alla fine del nazifascismo. Sono archivi dell'orrore, ma anche di altro: aprono mondi di vite normali, affetti, tragedie, passioni, persecuzioni; raccontano gli ebrei garibaldini, i caduti per la patria nella Prima guerra mondiale o nella guerra d'Etiopia, i partigiani; offrono un poliorama di ignoti e di famiglie celebri; di personaggi come Alfred Wiesner, cofondatore della Algida e inventore del famoso Cremino. Gianfranco Moscati ha raccolto per far conoscere e ricordare (è diventato cavaliere, per questo). Così ha donato la maggior parte dei suoi tesori: quelli sulla vita degli ebrei in Italia fino al '38, al Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah, che ha sede a Ferrara («ma purtroppo è tanto indietro con i lavori», dice); mentre il materiale sull'Olocausto è andato all'Imperial War Museum di Londra, che gli ha dedicato una sezione anche sul sito (www.iwm.org.uk). Ha allestito mostre itineranti che hanno viaggiato in tutta Italia: nel 2001 al Palazzo Reale di Milano ha richiamato 4o mila visitatori; nel 2004 è stata ospitata alla Camera dei deputati. In occasione della Giornata della Memoria, che si celebra oggi, molti pannelli sono esposti a Bolzano, a Vercelli, e in diverse altre città; il 6 marzo ci sarà un grande evento a Locarno. La televisione svizzera ha realizzato un bel filmato su Moscati, visibile online su lai.rsi.ch

Domenica/Il Sole24Ore- Giulio Busi: " Infanzia ad Auschwitz"

                                                                 Otto Dov Kulka

Chi è Orfeo, e chi Euridice? Lei si allontana, lentamente, passo dopo passo. Lui la guarda, immobile, sempre più sorpreso, ferito, confuso. Perché non si gira a salutarlo, almeno una volta ancora? Non le costerebbe nulla. Un'ultima occhiata, uno sguardo da portarsi dentro come il tesoro più prezioso per tutto il tempo – poco, pochissimo – che gli resta. «Non voltò la testa, camminava e camminò finché non divenne una macchiolina dall'altra parte del campo, e io sapevo che quella macchiolina era la sua gonna leggera – e poi sparì. Non so quanto rimasi lì impalato». La donna che si dilegua senza volgersi è la madre. Colui che aspetta invano un gesto di commiato è suo figlio. Sullo sfondo, le baracche di Auschwitz-Birkenau. Lei lascia il campo per andare verso il lavoro all'esterno e, forse, la salvezza. I ruoli si sono invertiti? Le tocca la parte di Orfeo, che per trascinare la compagna dall'Ade deve nascondere lo sguardo, farsi impassibile, non girare mai la testa? Il destino del giovane Otto, che la osserva impietrito e resta nel lager, sembra ormai irrimediabile. Lo aspetta la Grande Morte, è solo questione di tempo e i forni inghiottiranno anche lui.
La sorte si contorce con spire di serpe, muta direzione, beffarda. È la madre a scomparire, per il tifo, in un rifugio sulle rive del Baltico. Il ragazzo si salva. Ha modo di vivere una vita piena. Dopo Auschwitz, emigra in Israele, diviene un importante storico, scava – con metodo scientifico – nel passato della Germania e dell'Europa. E ricorda. Con pudore, senza mettersi in mostra. Gli anni depurano le scorie del passato, come sabbia fine, attraverso cui l'acqua filtri goccia a goccia. Non che, col tempo, gli enigmi dell'adolescenza si chiariscano. Non che il commiato così impersonale della madre, amatissima, trovi una spiegazione sicura. Ma ricordare, ricordare bisogna, tutta l'esistenza di un sopravvissuto non è in fondo che un'unica, lunghissima memoria involontaria. Paesaggi della metropoli della morte di Otto Dov Kulka è un frutto tardivo. Dopo decenni trascorsi a distinguere meticolosamente tra esperienza biografica e rigore storiografico, in età matura Kulka si è avventurato in dieci registrazioni, dieci monologhi a voce alta che ora confluiscono in un volume, ponderato e pudico. Lo si potrebbe definire un'opera di Land Art. Anziché intervenire direttamente nei territori naturali, su spazi vasti e incontaminati, per incidervi provvisori e reversibili segnali di cultura, Kulka si cala nella geografia segreta di Auschwitz. È un lavoro astratto, scritto in una prosa di lava e schegge porose, e costellato di immagini. Fotografie scattate dall'autore, nei suoi periodici "ritorni". Scorci in cui non compaiono quasi mai figure umane, e abbondano invece dettagli materici, paesaggi di taglio, oggetti colti da prospettive inusuali. A prima vista si potrebbe pensare ad affioramenti casuali, a un capriccio compositivo senza logica. Da una parte il fluire impetuoso di relitti di vissuto, trasportati dalla corrente interiore, e dall'altra spezzoni di Polonia, abbinati secondo l'arbitrio delle associazioni mentali. In fondo, un ragazzino di dodici anni, deportato assieme alla famiglia, ha ben diritto di costruirsi il proprio mondo trasognato anche sul baratro della fine. E un uomo che si volge indietro, maturo d'esperienza, può permettersi il lusso di scegliere ciò che gli fa meno male, ammesso che "meno" sia parola appropriata ad Auschwitz. A districare i ricordi del bambino-uomo ci pensa il caso, maniaco ordinatore che nulla trascura e nulla perdona, senza confidare ad alcuno le proprie ragioni. È il fato ad avvolgere il piccolo Otto in un feltro nero. Lo getta sul carro bestiame, e poi nel fango del campo. Per giocare, gli dà il filo spinato della recinzione. E allora lui, assieme agli altri ragazzini, fa a chi è più svelto. Tocca la rete senza restare fulminato, se hai il coraggio. Fissa il cielo, e vedilo azzurro, se ci riesci. E poi immagina un aeroplanino d'argento, ma che voli zitto zitto, così le guardie non se ne accorgono. Che occhi che hanno, le guardie. E che bastoni. Picchiano in silenzio, come si battono i panni, e in silenzio i deportati ricevono i colpi. Quasi senza un gemito, perché la disciplina è tutto, e tutto, ad Auschwitz, è disciplina. Poi i compagni di giochi entrano in fila, scuri come formiche, ed escono trasformati in fuoco e luce. Da lì non c'è altra uscita, e anche se è così giovane, Otto non si fa illusioni. Aspetta il suo turno, e i camini aspettano lui. Ma il turno non viene mai.
Una volta s'intrufola nel gruppo sbagliato e lo saltano nella conta, un'altra s'ammala da morire, e così, nascosto in infermeria, non muore con gli altri quando il campo viene smantellato. Ha ancora fiato in corpo per sopportare la marcia di evacuazione, nella neve del gennaio '45. I russi, alla fine, lo liberano, può andarsene, cominciare una nuova esistenza. Quale libertà, e andarsene da dove? Kulka, l'adulto che rivive passo passo il suo viaggio alle soglie dell'Ade, sa che da laggiù non può esserci un vero ritorno. «Io sono rimasto in quella Metropoli, prigioniero in quella Metropoli, di quella legge immutabile che non lascia spazio alcuno alla salvezza». Così che, a far la spola tra allora e adesso, è facile che si perda l'orientamento. Senza sole e senza stelle, dov'è lo Zenit lucente e dove il Nadir della disperazione? Qualche tempo dopo la Guerra dei sei giorni, Kulka s'incammina sulla spianata del Tempio, a Gerusalemme. È la prima volta che la percorre. S'inoltra verso «la zona abbandonata, interamente coperta di erba e di rovi». Vuole avvicinarsi alla Porta della misericordia, la Porta dorata, che è murata. Da lì, secondo la tradizione ebraica, il messia farà il suo ingresso a Sion.
«D'un tratto fui colpito da una sensazione di certezza assoluta, indiscutibile: in questo posto ci sono già stato!». Eppure, sa che è impossibile, si sta sbagliando, ma perché? Dopo essersi guardato a lungo attorno, finalmente lo vede. Tra gli sterpi, un filo spinato arrugginito, in tutto simile a quelli rimasti nel lager dopo l'abbandono. È solo un relitto, un object trouvé senza padrone e senza senso. Eppure è bastato scorgerlo per un attimo perché il Tempio e Auschwitz diventassero, nella sua immaginazione, un luogo solo, lo stesso posto, a cui era giunto bambino e dal quale non sarebbe mai più potuto partire.
Allora era vero, c'era già stato, il Santuario l'aveva già visitato. Solo che, quando vi aveva fatto ingresso, si chiamava in un altro modo. Il filo contorto, gettato in un canto, era la prova più evidente che qualsiasi strada lo avrebbe riportato allo stesso dove. Otto Dov Kulka è un vecchio signore dai modi gentili, che, mentre racconta, passa con naturalezza dall'inglese all'ebraico e al tedesco. In tedesco, la sua voce un po' stanca assume un tono ancor più cortese, e le frasi suonano eleganti e nitide. Non ha rancori – mi dice – la Germania è mutata, nulla è rimasto come allora, e anche l'Europa si è trasformata. Lo ascolto – rassicurante, distaccato e al tempo stesso cordiale – e mi viene da pensare che non è del tutto corretto, che qualcosa è rimasto immutato, dai suoi dodici anni. La Porta della misericordia è ancora serrata dalle pietre. E dall'altra parte, appena fuori dal Tempio, si stende un cimitero. Kulka questo lo sa, se lo ricorda. Fin troppo bene.

Otto Dov Kulka, Paesaggi della metropoli della morte, traduzione di Elena Loewenthal, Guanda, Parma, pagg. 186, € 14,00

l'autore
sopravvissuto|Otto Dov Kulka, storico e professore emerito dell‘Università ebraica di Gerusalemme. Nato nel 1933 in Cecoslovacchia, fu deportato a Theresienstadt e poi ad Auschwitz. Riuscì a sopravvivere. «Paesaggi della metropoli della morte» esce, tra gennaio e marzo, nelle maggiori lingue.

Domenica/IlSole24Ore-Domenico Scarpa: " Come abbiamo visto la Shoah"

Robert Gordon

Tra il marzo e il maggio 1950 Giuseppe Novello pubblicò sulla «Stampa» un breve ciclo di tre disegni intitolato «Le tappe del l'oblio»; uscivano di domenica, giorno riservato alla sua rubrica. Il primo è del 12 marzo. Siamo in un salotto della buona borghesia, l'ambientazione che gli era congeniale. È l'ora del tè: si vedono persone benvestite, forse informate (circolano libri e riviste), o quantomeno educate a fingere un'attenzione intelligente. Tiene banco un signore senza collo, con gli occhiali e il papillon: «Io poi comincio anche a dubitare che in Germania siano veramente esistiti i campi di concentramento».
Il papillon andava sviluppando un suo discorso e tirava una conclusione, non l'ultima ma una fra tante, senza nemmeno l'intenzione di dare scandalo (notare che non parlava di campi di sterminio, ma di concentramento).
Proprio come Altan oggi, all'epoca Novello era un registratore sociolinguistico infallibile. La guerra era finita da cinque anni, e da due si era ormai esaurita la piena delle memorie scritte a caldo dai reduci dei campi. Pacato e inesorabile, Novello fermava con poche linee la situazione: inchiodando per sempre il senso comune di un'epoca, la lingua semicolta delle nostre classi dirigenti, la volubilità della memoria collettiva e delle percezioni condivise, i cicli e anticicli della storia con la esse maiuscola.
Nell'economia rappresentativa della vignetta di Novello c'è, in essenza, la complessa ricchezza della storia che Robert Gordon ricostruisce per noi in Scolpitelo nei cuori. La diastole del titolo, ripreso dalla poesia-epigrafe di Se questo è un uomo, si deve all'editore italiano, mentre quello originale, che suonava anodino e anzi un po' accademico, è qui retrocesso a sottotitolo: L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010). Gordon, che insegna a Cambridge, è un italianista noto nel nostro Paese. Dieci anni fa Carocci ha tradotto un suo libro su Primo Levi che rimane il più bello dedicato allo scrittore torinese, Le virtù dell'uomo normale. Tre anni fa ha dato un seguito alla sua ricerca pronunciando la prima delle Lezioni Primo Levi promosse dall'omonimo Centro studi di Torino: «Sfacciata fortuna». La Shoah e il caso.
Gordon presenta questa volta una storia generale della Shoah «nella cultura italiana», cioè nel costume e nell'antropologia nazionale a ogni livello. È un lavoro che nessuno studioso italiano aveva mai tentato, un'indagine che descrive la singolare interazione di centralità e marginalità del nostro Paese rispetto allo sterminio. Imitatrice e alleata della Germania nazista nella persecuzione degli ebrei, l'Italia, scrive Gordon, ebbe «da una parte, un ruolo di genitura e di collaborazione nel genocidio e, dall'altra, fu un compagno di viaggio incerto, a tratti persino ostruzionista». Già le cifre sembrano consentire una lettura bifocale: sui 40mila cittadini italiani di origine ebraica (questa la cifra allo scoppio della guerra) "solo" 7.800 circa, un venti per cento, furono deportati, potrà dire chi coltiva il mito degli italiani-brava-gente alla cui confutazione Gordon dedica un capitolo efficace. Purtroppo, le stesse cifre dicono che fra quei deportati i sopravvissuti furono poco più del dieci per cento.
Sono molte le false percezioni che Gordon demolisce: nessuno tra i dati che espone è del tutto nuovo, ma completamente originale è il quadro d'assieme della ricerca, il suo (per dirla in inglese) scope. Oggi sappiamo bene che dei Lager tedeschi si ebbe ben presto in Italia un'impressione forte, grazie alle prime fotografie e reportage del '44-45. Non prese forma, invece, una nozione precisa e radicata dell'evento (vedi la vignetta di Novello), meno che mai si percepì la specificità ebraica del nesso deportazione-sterminio. La memoria non si convertì in consapevolezza: fu la costante frustrazione di Primo Levi.
Dai mesi dell'«Italia divisa in due» fino agli anni doppiozero Gordon registra le brusche escursioni del tema-Olocausto in casa nostra (e argomenta, dalla sua postazione non italiana, la scelta di questa parola). È una vicenda con un alto numero di concause in reciproca interferenza. Anche in questo libro il saper distinguere è il talento migliore di Gordon, che definisce «trasversali» i suoi dieci capitoli: ma in realtà la forma di Scolpitelo nei cuori è curvilinea, un accerchiamento progressivo della questione che fa spesso leva su antitesi, su coppie di libri o di film messe a contrasto: Giacomo Debenedetti vs Curzio Malaparte, Carlo Lizzani vs Ferzan Ozpetek.
Naturalmente un capitolo benissimo concepito riguarda Primo Levi. Gordon indaga la ricezione della Shoah entro la sua medesima opera, cercandone la traccia fra i suoi «scritti occasionali e pedagogici» (quindi, in quell'impegno di testimonianza nelle scuole che fu il «terzo mestiere» di Levi dopo quelli di chimico e scrittore) e nella sua biblioteca: quali i libri sulla Shoah che egli leggeva, recensiva, consigliava? Quali le preferenze e quali le esclusioni, e perché? Le pagine dove Gordon trasforma una bibliografia – la bibliografia sintetica su Auschwitz inclusa nell'edizione scolastica di Se questo è un uomo, 1973 – in un'avvincente narrazione a intreccio sono un vero pezzo di bravura.
Grazie a questo libro vediamo meglio che cosa vi sia di specificamente italiano nel modo tenuto da Levi per testimoniare Auschwitz, ma vediamo meno bene (risultato paradossale per uno studioso straniero) che cosa nella postura intellettuale di Levi risulti esportabile all'estero in maniera tanto fluida e durevole. Il prezzo pagato dall'opera di Levi per entrare nel dibattito internazionale – non tanto letterario ma soprattutto filosofico, politico, persino teologico – è la perdita del referente (i suoi concetti viaggiano ormai sganciati dall'evento-Auschwitz sul cui fondamento egli li aveva elaborati) e un eccesso di generalizzazione, per cui nozioni come «zona grigia», «vergogna» o «violenza inutile» giungono a significare cose ben diverse da quelle descritte nei suoi libri, dove invece posseggono una precisa quanto delimitata ponderatezza.
Scolpitelo nei cuori è destinato a rimanere per lungo tempo come un'opera di riferimento, perché il quadro generale che ci offre è persuasivo: lo è di certo sulla misura mediana, cioè rispetto alla dimensione nazionale promessa dal titolo. Le future ricerche potranno portare novità tanto al livello micro quanto al livello macro: con l'ingrandire vicende su cui Gordon è stato sintetico per ragioni di spazio o – all'opposto – con l'indagare quanto realmente abbiano influito, sulla ricezione di Auschwitz in Italia, gli eventi della politica internazionale. Dalla guerra fredda al processo Eichmann  alla caduta del muro di Berlino, essi hanno forse un'importanza maggiore di quella che Gordon gli attribuisce; ma resta ferma, insieme con l'importanza di quest'opera, la sobrietà della voce saggistica di Gordon nel raccontarci una storia che ci riguarda, con buona pace del papillon e dei suoi campi di concentramento.

Robert S.C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), traduzione di Giuliana Olivero, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 346, € 27,00

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