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Africa: il giorno del giudizio Mordechai Kedar Dieci mesi fa, nel marzo del 2012, avevo scritto un articolo sul risveglio dell’Islam estremista in Africa, segnalando come negli Stati del Nord Africa -Marocco, Algeria, Libia e Tunisia - fosse attiva l'organizzazione “Al Qaeda del Magreb”, che rapisce e uccide turisti e dipendenti di imprese occidentali. Queste erano state le mie conclusioni: “La popolazione africana è coinvolta in una serie di controversie a sfondo tribale, dove un ruolo importante è svolto dalla componente islamista contrapposta a quella etnica, per cui spesso la situazione diventa esplosiva. Il denaro dell’Arabia Saudita, la propaganda wahabita, la presenza di organizzazioni terroristiche e una diffusa distribuzione di armi (alcune delle quali sono scomparse dai magazzini dell’esercito libico dopo la caduta di Gheddafi), rendono difficili le relazioni tra i vari gruppi di popolazioni africane, così come sono anche negativi i dati dello sviluppo economico”. Quel che è successo la settimana scorsa in Algeria è la prova di quello che era già evidente allora: un’area trascurata dal governo è diventata un focolaio per il terrorismo. Gran parte del territorio algerino, dieci volte più grande di Israele, è situata nel vasto, per lo più disabitato, deserto del Sahara. Piccoli gruppi di popolazioni si concentrano vicino a sorgenti e pozzi, e, di recente, accanto a miniere, fonti di energia, olio o gas. Questi agglomerati umani sono isolati ed esposti ad attacchi di gruppi armati che scorrazzano liberamente nella zona, sotto le insegne di Al Qaeda. Uno di questi gruppi armati, denominato “Firmato col sangue” sotto la guida di Mukhtar Belmukhtar, dotato di una quarantina di combattenti, ha assaltato Ain Amenas, sede di un giacimento di gas, sequestrato e preso in ostaggio circa 700 operai, tra cui alcuni europei. L’esercito algerino ha risposto all’attacco terroristico, causando la morte di 32 terroristi e 23 ostaggi, e la liberazione di 685 operai algerini e 107 lavoratori stranieri. I terroristi erano arrivati su alcune jeep 4X4, dotate di mitragliatrici pesanti, lanciarazzi, granate e pistole. Nello scontro sono anche morti un certo numero di soldati algerini. Il mondo, soprattutto l’Europa, ha duramente criticato il modo maldestro e non professionale con cui gli algerini avevano reagito all’attacco terroristico. Il governo algerino, a propria difesa, aveva risposto che se non avesse reagito rapidamente e con decisione, il numero di vittime sarebbe stato di gran lunga superiore. Ora sorge spontanea la domanda: perché è stato attaccato un giacimento di gas, e cosa spinge le organizzazioni terroristiche a colpire in particolare l’Algeria? La risposta si ricollega ai recenti sviluppi in Nord Africa. I dittatori di questi Stati dominano e opprimono con la forza i loro popoli. Quando la Libia crollò, con essa fallì anche quella cultura arrivata dall’Occidente: i dittatori affrontavano, come è abituale in Africa, con determinazione e ferocia, i terroristi come Al Qaeda del Magreb, che operano nella zona, minacciando di rovesciare i vacillanti regimi, per costruire sulle loro rovine degli Stati islamici che, a loro volta, esporteranno il terrorismo nel mondo. Questa situazione è cambiata. I terroristi islamici si muovono con più libertà, sono coinvolti fino al collo nelle guerre in Mali e Somalia, come è avvenuto anche in Libia, Tunisia, Niger, Nigeria e Kenia. L’assassinio dell’Ambasciatore americano in Libia del settembre scorso è solo uno degli esempi delle tecniche di questi gruppi. Il caos che regna in questi Stati consente alle organizzazioni jihadiste di controllare vasti territori, che servono da base per ricevere armamenti e addestramento militare, indispensabili per far cadere i governi, in paesi africani dai confini illegittimi, definiti ancora dal colonialismo, allo scopo di frammentare la nazione islamica in tanti piccoli e deboli gruppi. Gli europei che lavorano nei paesi africani sono considerati una continuazione del colonialismo, perché secondo gli jihadisti, hanno come unico obiettivo il rafforzamento dell’egemonia occidentale sui popoli africani, il loro habitat e le risorse naturali, per sfruttarle e ridurli di nuovo a essere schiavi del prepotente e arrogante Occidente. Questo è il motivo per cui queste organizzazioni sequestrano i lavoratori europei; serve per dissuadere l’arrivo di altri europei. Il prezzo del riscatto pagato dalle compagnie petrolifere unge le ruote delle organizzazioni jihadiste, che spendono il denaro degli infedeli nell’acquisto di armi, munizioni, sistemi di comunicazione, di navigazione e trasporto. Inoltre il denaro permette di comprare la collaborazione di altri gruppi tra la popolazione civile, corrompere ufficiali govenativi , personale militare e di intelligence. Un altro fattore importante è che i gruppi jihadisti non sono uniti tra loro, ma al contrario sono in competizione l’uno con l’altro. Il capo di Al Qaeda del Magreb, Abdul Hamid abu Zaid, preferisce colpire con azioni terroriste su bassa scala, come attacchi e rapimenti, più che con azioni con alto numero di vittime, come ha fatto Belmukhtar nel giacimento di gas in Algeria. Abu Zaid crede che attacchi su vasta scala, come quello del 9/11/2001 possano spingere l’Occidente a reagire contro gli jihadisti con azioni altrettanto distruttive come è successo in Afghanistan, mentre azioni come quella di far saltare l’ambasciata americana a Nairobi, capitale del Kenia, e a Dar a-Salam, capitale della Tanzania (agosto 1998), raggiungono l’obiettivo senza offrire all’Occidente il motivo di intervenire con operazioni militari su vasta scala. I dubbi dell’ Occidente Per USA, Francia e altri paesi della NATO il problema è come affrontare quanto sta succedendo in Africa. Se si lascia campo libero alle organizzazioni islamiche, è chiaro che instaureranno degli “Emirati islamici”, esportando il terrorismo come accadde in Afghanistan dopo che Osama bin Laden ne ha preso il controllo. D’altra parte, il continuo fallimento dei tentativi dell’Occidente di instaurare un regime legittimo, effettivo e stabile in Afghanistan e Iraq dimostra che gli occidentali non sono in grado di affrontare i problemi di questi paesi, diffondendo le idee della democrazia. Tre settimane fa la Francia ha impegnato forze di terra e cielo nel Mali. Sarà capace di liberare i due terzi di quel territorio, oggi sotto il controllo degli estremisti islamici? Forse sì, ma il successo sarà di breve durata, per due motivi: a) gli jihadisti si possono facilmente spostare in altre zone dove non ci sono soldati francesi, b) fin quando le popolazioni civili rimarranno in quell’area, gli estremisti islamici si potranno nascondere al loro interno, pronti ad attaccare le forze d’occupazione. A Washington ci sono differenze di opinione: il Pentagono e il Dipartimento della Difesa ritengono che se gli USA non affronteranno il nocciolo del problema africano, l’ jihad si espanderà in Europa e negli Stati Uniti, e allora gli USA saranno costretti a coinvolgersi, come è accaduto in Afghanistan, perciò è meglio affrontare il problema finchè è limitato. La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato invece, sono decisamente contrari a qualsiasi coinvolgimento militare in Africa; il Presidente e i diplomatici pensano che un intervento americano potrebbe radicalizzare i rapporti tra Stati Uniti e Stati africani, e che un’azione dei soldati americani sul suolo africano potrebbe sfociare in gravi violenze con morti e feriti, danneggiando solo l’immagine dell'America, aumentando i contrasti con i paesi occidentali e pregiudicando l’egemonia colonialista occidentale in Africa. Molti soldati americani rimarrebbero feriti, altri tornerebbero negli USA nelle bare, riducendo così le possibilità che i popoli africani accettino il modello di democrazia americano. La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato preferiscono inviare armi, equipaggiamenti e denaro agli attuali Capi di Stato per aiutarli a resistere con forza agli attacchi delle milizie islamiche; mirano a sostenere i loro eserciti con azioni di intelligence, così come la NATO fece con i ribelli contro Gheddafi con gli attacchi aerei, senza che un solo soldato occidentale mettesse piede sul suolo della Libia. Ma ci sono dubbi sul fatto che armi, munizioni, equipaggiamento e denaro arrivino nelle mani giuste, dal momento che nei governi degli Stati africani si sono infiltrati agenti nemici, che collaborano dietro le quinte con la jihad. Aiutati dalla corruzione esistente all’interno di questi sistemi di governo sostenuti dall’Occidente, non fa che aumentare il potere degli jihadisti, anche senza il coinvolgimento di soldati occidentali. Conseguenze per l’Europa Il complesso groviglio jihadista in Africa, non fa che aumentare le preoccupazioni circa i danni che possono derivare alla stabilità dell’Europa, dove gli immigrati africani e musulmani potrebbero colpire le infrastrutture dei Paesi che li ospitano, per vendicarsi delle azioni intraprese dagli occidentali in Africa, con danni gravi all’economia europea, che, di per sé, naviga già in cattive acque. Questa situazione potrebbe nuocere anche agli ebrei europei, perché, anche se può sembrare strano, africani e musulmani potrebbero ritenerli un comodo capro espiatorio. Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. |
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