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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz 25/01/2013

Dallo scudetto ad Auschwitz                             Matteo Marani
Aliberti editore                                                       euro 14


Sono tante le eccellenze che il regime nazifascista ha annientato durante la Seconda Guerra mondiale: eccellenze nell’arte, nella musica, nella letteratura ma anche nello sport.
E’ una storia sconosciuta ai più quella che il giornalista Matteo Marani, docente di giornalismo all’Università di Bologna e direttore del Guerin Sportivo, racconta con puntiglio storico e passione sportiva nel libro “Dallo scudetto ad Auschwitz “, regalandoci un nuovo tassello che si aggiunge alle molte narrazioni sulla Shoah, preziose come perle rare e uniche come solo può essere la vita di ciascun essere umano.
Il sottotitolo del libro recita “Vita e morte di Arpad Weisz allenatore ebreo”.
Per molti è un nome sconosciuto e prima di cimentarsi in questa avventura lo era anche per il giornalista che “ricordava a malapena che si trattasse di un allenatore di calcio degli anni Trenta e che era stato obbligato, dalle leggi razziali, a lasciare il nostro paese alla vigilia della seconda guerra mondiale…” Di quell’ungherese inghiottito in un forno crematorio di Auschwitz nessuno sa nulla, né gli storici, né i giornalisti ma Matteo Marani non demorde e più si rende conto che la storia è misteriosa più aumenta in lui la passione di scoprirla e di scavare per ricostruire la vita di Weisz: un compito arduo e impegnativo cui si è dedicato con la tenacia di un “detective della Memoria” e di un archeologo riportando alla luce la storia straordinaria racchiusa in questo bel libro.
A sessant’anni dalla morte - che si immagina avvenuta in un lager nazista - e nonostante la sua fama di allenatore che aveva fatto vincere scudetti e coppe, di Arpad Weisz non vi sono tracce. L’unica eccezione è un cronista locale che negli anni Sessanta, sulla rivista del Bologna, fornisce alcuni dettagli sul tormentato percorso della famiglia Weisz prima della fine.
Ed è proprio dalla fine che parte Matteo Marani per ricostruire la vita dell’allenatore ungherese. Dopo aver letto carte e documenti, visitati archivi e uffici anagrafe, interrogato giornali dell’epoca, la prima svolta concreta arriva da Michele Sarfatti, direttore del Centro documentazione ebraica di Milano, con il consiglio di consultare lo Yad Vashem, il sito della memoria che contiene i nomi dei morti dei campi di sterminio e dei ghetti. Successivamente è grazie all’aiuto di Claudio Roncarati, il responsabile dell’anagrafe storica di Bologna, che l’autore ottiene il certificato di residenza di Weisz e il suo stato di famiglia: Arpad ha una moglie, Elena, con due figli piccoli, Roberto e Clara e ha vissuto a soli 300 metri dall’abitazione di Marani, in Via Valeriani al numero 39.
Con l’intuizione di un detective l’autore rintraccia gli elenchi della scuola dove il piccolo Roberto ha frequentato la prima e seconda elementare ed entra in contatto, compulsando l’elenco telefonico, con Giovanni Savigni, l’amico d’infanzia che da quasi settant’anni cerca di scoprire quale sia stato il destino di Roberto.
Sono piccoli passi ma molto significativi per Matteo Marani che lo portano negli uffici della squadra di calcio del Dordrecht per conoscere gli anni trascorsi da Weisz in Olanda e poi a Westerbork, ultima tappa prima della deportazione ad Auschwitz.
Piano piano si delinea un quadro dove ogni tassello occupa un posto preciso e il risultato è un libro di forte impatto emotivo per il quale non si può che essere grati all’autore.
Chi è Arpad Weisz? Un genio della panchina, un innovatore quasi rivoluzionario per l’epoca, un uomo coscienzioso, nato per allenare ma anche un giocatore di talento.
Nato a Solt in Ungheria nel 1896 dove muove i primi passi nel calcio, giunge in Italia con una notevole esperienza che mette a frutto facendo conseguire prima all’Inter e poi al Bologna l’ambito scudetto. Ed è proprio in questa città che si apre il libro di Marani dove Arpad arriva nel 1935 chiamato dal Presidente Renato Dall’Ara, consapevole di aver acquisito un professionista di alto livello. Weisz sostituisce il connazionale Lajos Kovacs e adottando il metodo che lo ha reso famoso – scendere in campo durante l’allenamento dei calciatori di cui cura meticolosamente la preparazione, valorizzare al massimo i giovani, prevedere i ritiri di squadra ecc. – mette mano alla squadra costruendo quello che è stato il Bologna più forte di tutti i tempi.
E’ un uomo colto, tranquillo, schivo che non ama farsi riprendere in pubblico Arpad Weisz, un fine psicologo che preferisce dialogare con i suoi calciatori anziché urlar loro in faccia. Un uomo amato, stimato che però già dalla primavera del 1938 si sente inquieto per i soprusi contro gli ebrei e i tragici eventi che accadono in Germania e che piano piano si profilano anche nell’Italia di Mussolini.
Le leggi razziali sono un duro colpo per la famiglia Weisz: il piccolo Roberto non può più frequentare la scuola e anche Arpad, personaggio conosciuto che svolge un lavoro molto popolare, compare già da settimane nella lista degli ebrei stranieri da cacciare.
Al bravo allenatore ungherese non resta che andarsene dall’Italia, prima in Francia poi in Olanda dove trova rifugio nella cittadina di Dordrecht, iniziando ad allenare con la consueta passione e professionalità la locale squadra di calcio.
L’Olanda sembra un porto sicuro e in questa città i Weisz cercano di riprendere, pur fra mille difficoltà, una vita con una parvenza di normalità: il piccolo Roberto va a scuola anche se non capisce una parola, la mamma Elena si dedica alla cura della famiglia e prende confidenza con i nuovi vicini.
Weisz non pensa di fuggire con la famiglia in Palestina o in America come hanno fatto altri correligionari. Perché, viene da chiedersi? Non è certo il solo ad aver creduto che tutto si sarebbe sistemato e forse anche chi è fuggito mai avrebbe immaginato l’immane tragedia che si stava abbattendo sul popolo ebraico.
Nemmeno la paura e l’inquietudine che sicuramente albergano negli ultimi mesi nel suo animo inducono l’allenatore ungherese a prendere la via dell’esilio.
E’ dunque nella piccola dimora di Bethelehemplein 10 road che lo trovano gli agenti della Gestapo il 2 agosto 1942 quando fanno irruzione per arrestare la famigliola di ebrei.
Il primo approdo, il campo di smistamento di Westerbork, mimetizzato nel paesaggio, a undici chilometri di distanza da Assen, è difficile da scorgere. In questa città fantasma dominio indiscusso di Rauter, un losco figuro “molto apprezzato da Himmler per la sua efficienza, il ricambio dei reclusi è sistematico, organizzato, ma sempre senza dare nell’occhio…è tutto registrato perché la più grande sciagura nella storia dell’umanità è stata una gigantesca operazione amministrativa”.
“Quei treni sono l’incubo del campo…l’attesa della prossima lista e della nuova spedizione è l’elemento che detta la vita di Westerbork”.
E da qui, proprio il 2 ottobre 1942, compleanno della piccola Clara che in pochi anni ha dimenticato la spensieratezza e visto frantumarsi il suo universo infantile, parte un nuovo convoglio diretto ad Auschwitz. Anche i Weisz sono saliti su uno di quei vagoni che li porteranno a morire.
Il libro di Matteo Marani, arricchito da preziose fotografie d’epoca che restituiscono il volto di un uomo “cancellato” dalla Storia, oltre che da testimonianze commoventi, non è solo un’occasione per riflettere sul valore imprescindibile della memoria e sul veleno dell’antisemitismo che, come questa storia ci insegna, può infiltrarsi anche nel mondo dello sport ma è soprattutto un atto di “riparazione” nei confronti di una persona che, pur avendo dato tanto agli altri con la dedizione e l’amore per il suo lavoro, è stata inspiegabilmente e ingiustamente dimenticata.
L’opera di Marani, molto accurata sia sotto il profilo storiografico che narrativo, è un libro appassionante che si legge d’un fiato fino all’ultima pagina e che consiglio non solo agli estimatori del calcio, ma a tutti coloro che aspirano a tenere viva la fiaccola della Memoria: per ricordare ma soprattutto per non dimenticare.

Giorgia Greco


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