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La Stampa Rassegna Stampa
22.01.2013 Memoria: della Shoah si parla troppo perché se ne parla male
l'intervista di Alberto Mattioli a Georges Bensoussan, commenti di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 22 gennaio 2013
Pagina: 32
Autore: Alberto Mattioli - Elena Loewenthal
Titolo: «Non si può insegnare la Shoah ai bambini - Ma il rosa scolorisce la tragedia dei Lager - Incontro all’orrore con la valigia in mano»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 22/01/2013, a pag. 32, l'intervista di Alberto Mattioli a George Bensoussan dal titolo " Non si può insegnare la Shoah ai bambini ", preceduta dal nostro commento, a pag. 33, gli articoli di Elena Loewenthal titolati " Ma il rosa scolorisce la tragedia dei Lager " e " Incontro all’orrore con la valigia in mano ".
Ecco i pezzi:

Alberto Mattioli - " Non si può insegnare la Shoah ai bambini "


Georges Bensoussan, Storia della Shoah, ed. Giuntina

Il senso delle parole di Georges Bensoussan è totalmente stravolto nel titolo dato alla sua intervista. 
Basta leggere le parole usate come riassunto all'intervista per rendersi conto dell'errore  contenuto nella titolazione fatta dalla stessa persona che, poi, ha impaginato il pezzo "
Di questa tragedia si parla troppo perché se ne parla male, in maniera compassionevole per le vittime. Invece si tratta di una grande questione politica e antropologica che rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale".

Ecco l'intervista: 

Storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi, Georges Bensoussan è l’autore di una sintetica ma assai ben fatta Storia della Shoah che La Giuntina ha appena tradotto e pubblicato in Italia (pp. 168, € 12).

Professore, il 27 è la Giornata della Memoria.

«È importante celebrarla. Ma bisogna avere ben chiaro che in realtà l’Unione Europea l’ha istituita per celebrare la rifondazione dell’Europa. L’unità europea è stata costruita sull’antinazismo e il simbolo del nazismo, ciò che lo differenzia dall’altro grande totalitarismo, il comunismo, è appunto la Shoah. È la Giornata della Memoria europea, non ebrea. È l’Europa dei lumi contro la notte della ragione».

Sulla memoria, la Francia ha ancora del lavoro da fare?

«L’idea della complicità di Vichy, dunque dello Stato francese, è recente. Nel ’73 fu uno storico americano, Robert Paxton, a pubblicare i primi studi sull’argomento. Ormai la tradizionale visione binaria Resistenza-collaborazionismo non regge più. In mezzo c’è una vasta zona grigia. All’inizio della persecuzione, la maggioranza dei francesi, e le élite in particolare, non protestarono affatto. Anche se è difficile valutare l’evoluzione dell’opinione pubblica in un regime dittatoriale, la svolta avvenne nel 1942 quando iniziarono le rafles , le retate. La caccia all’ebreo indignò molti francesi. Ma, in generale, è sbagliato avere una visione monocolore. La Francia non è stata solo Vichy e non è stata solo la Resistenza. E per fortuna circa tre quarti degli ebrei francesi si sono salvati».

Perché?

«Intanto perché la Francia è grande e fatta anche di foreste e di montagne. E poi non dimentichiamoci che la Francia del Sud, la cosiddetta zona libera, fu occupata solo per venti mesi. Infine, parte di questa zona fu occupata dagli italiani. I documenti tedeschi sono pieni di lamentele contro gli italiani che proteggono gli ebrei e addirittura li sottraggono alle retate della polizia francese».

Lei ha polemizzato con Nicolas Sarkozy che aveva proposto che ogni bimbo francese ricostruisse la storia di un bimbo ebreo deportato.

«Semplicemente, da storico ho fatto presente che l’idea era benintenzionata ma assurda. Non si può insegnare la Shoah ai bambini, non si può mostrare loro Treblinka. Perché è una memoria troppo pesante, troppo dura da portare e finisce per colpevolizzarli. Si può, anzi si deve, insegnare loro cosa c’è intorno alla Shoah, cosa sono il razzismo o l’intolleranza. Alle elementari puoi parlare di Anna Frank. Delle camere a gas, no».

Sullamemoria,c’èqualcosachesipotrebbe fare e non si fa?

«Forse avere ben presente che, dal punto di vista storico, la memoria è una trappola. La memoria non è la storia, è una religione. E non serve a ricordare, ma a dimenticare, perché è fatalmente selettiva. Per questo lo storico è disincantato e deve esserlo. Mi spiego con un esempio che non c’entra con la Shoah. Nel 1985 furono ricordati con grande riprovazione i 300 anni della revoca dell’editto di Nantes, quello che aveva concesso agli ugonotti la libertà di culto. Tre anni dopo, lessi il Code noir , cioè l’insieme delle leggi che regolavano la schiavitù nelle colonie francesi. Bene. Sa in che anno Luigi XIV l’aveva promulgato? Nel 1685. Solo che il suo terzo centenario non l’aveva ricordato nessuno».

Insomma, della Shoah si parla troppo?

«Se ne parla troppo perché se ne parla male. Cioè se ne parla in maniera compassionevole per le vittime, mentre la Shoah è un’enorme questione politica e antropologica. Politica, perché pone il problema di come un popolo civilizzato abbia scientemente deciso di eliminarne un altro. Antropologica, perché rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale. Lo capirono per primi certi intellettuali cattolici del dopoguerra, come Maritain, Claudel o Julien Green. Poi il tema è stato ripreso dagli Anni 70 con uno studio della Shoah che si è giovato di nuovi strumenti, per esempio la psicanalisi».

Ma a livello mediatico, lei dice, è troppo presente.

«C’è una saturazione della memoria. Il discorso sulla Shoah, sui giornali, nei film, in televisione, è talmente invadente e basato soltanto sul pathos da diventare banalizzante. La nostra è una società compassionevole, dove lo status di vittima è quello più ambito. Dunque ognuno vuole avere la sua Shoah. E Auschwitz viene continuamente evocato per situazioni completamente diverse. Fino al paradosso di paragonare sulla questione palestinese i nazisti di ieri agli israeliani di oggi, che è una bestialità».

Ultima domanda e anche personale. La Shoah non è un soggetto troppo duro per dedicarle la vita intera?

«È sicuramente un soggetto sconvolgente. Ci si salva con un humour nero che per i non addetti ai lavori potrebbe risultare scandaloso, politicamente molto poco corretto. È lo stesso che hanno i medici o chi è tutto il giorno e tutti i giorni alle prese con la sofferenza. Però vivere quotidianamente a contatto con la Shoah ti rende anche molto acuto sulla realtà di oggi. Ti si drizzano le antenne, stai più attento a quel che senti. E capisci che le parole sono sempre la prima tappa della tragedia».

Elena Loewenthal - " Ma il rosa scolorisce la tragedia dei Lager "


Elena Loewenthal

Il giorno della Memoria è anche questo: copertine più o meno patinate, fascette a tinte forti (quest’anno va molto il giallo stella di Davide), titoli roboanti. Da molti anni a questa parte, infatti, il giorno della Memoria è una specie di iterazione della valanga libresca natalizia, l’occasione per una diversa declinazione della strenna, insomma. Gli editori, infatti si sentono in dovere di marcare il calendario, di non lasciar passare inosservata la ricorrenza. Evitando, per quanto possibile, le ripetizioni, e facendo i conti con l’inevitabile scomparsa dei testimoni diretti ai quali affidare la ricostruzione di quella terribile memoria: e così, la narrativa o la rielaborazione narrativa di una verità storica sono ormai predominanti in questo periodico panorama editoriale. Quest’anno, ad esempio, va molto il romanzo simil rosa. Fra i libri usciti per il giorno della Memoria se ne contano almeno quattro che offrono al lettore una versione dello sterminio diluita in salsa amorosa: Astrid Rosenfeld, Per coraggio, per paura, per amore (traduzione dal tedesco di Elena Broseghini per Mondadori, pp.298, € 18), Sarah McCoy, La figlia dei ricordi, traduzione dall’inglese di Claudia Lionetti, Editrice Nord, pp. 456, € 17,60), Millie Werber ed Eve Keller, La sposa di Auschwitz. Una storia vera, (traduzione dall’inglese di Pamela Cologna, Newton Compton, pp. 283, € 9,90) e Ellis Lehman con Shulamith Bitran, Il nostro appuntamento. Una storia vera (traduzione dal nederlandese di Laura Pignatti, Piemme, pp.405, € 18). Questo corale inno all’amore dentro e nonostante Auschwitz ha prevedibili tratti comuni: fascette tinta su tinta (rossa e rosa), volti di donne più o meno trasognate e fili spinati in copertina. Promettono attendibilità o talento narrativo, garantiscono commozione. Al di là delle differenze nello stile, nella lingua e nell’ambientazione (due di questi libri si fondano sull’attestato di verità della storia, gli altri promettono la scoperta di un talento inventivo), fa un certo effetto ritrovare i toni del romanzo sentimentale dentro un contesto così nero. Che sia solo rievocato in flashback o assunto come teatro della storia. «È il terzo giorno della mia prigionia… Piove così forte, tesoro mio, e nonostante la pioggia mi renda così triste sono contenta che piove perché anche lì dove sei tu piove. E quella pioggia rende triste anche te e per questo sono contenta, perché nello stesso momento proviamo lo stesso sentimento…». «Si inizia a scrivere perché c’è qualcuno a cui si vuole raccontare tutto?... Amy, è a te che vorrei raccontare tutto».

Che siano storie vere rivisitate o frutto d’invenzione narrativa, i toni lievi sono rassicuranti, i personaggi sembrano calati sulla scena di un mondo quasi familiare, riconoscibile. I campi della morte, le deportazioni, l’orrore: tutto scolorisce dietro le tinte pastello. Lasciando un retrogusto inquieto e la certezza che no, il rosa non s’addice al ricordo della Shoah.

Elena Loewenthal - " Incontro all’orrore con la valigia in mano "


Bruno Maida, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938-1945 (Einaudi, pp. 345, € 29)

I bambini non dovrebbero mai entrare nei libri di storia. La storia, quella con la maiuscola all’inizio, non è cosa per loro ma per gli adulti. Quando i bambini vi entrano, è perché c’è qualcosa di sbagliato. Non in loro, naturalmente, ma nella storia fatta dagli adulti.

Allo Yad Vashem, il memoriale alla Shoah che occupa una collina di Gerusalemme, c’è un luogo diverso dagli altri. E’ un edificio ottuso, completamente buio.Un’unica fiammella di candela, grazie a un invisibile gioco di specchi neri, produce milioni di riflessi baluginanti. Il visitatore entra e deve tenersi al mancorrente per seguire il percorso cieco, non vede nulla altro che quegli innumerevoli riflessi di candela. Intanto, una voce scandisce dei nomi e delle date di nascita. Sono i nomi di un milione e più di bambini sterminati. Non sono tutti perché tanti mancano all’appello. La voce ci mette due anni, a dirli tutti. E poi ricomincia.

Lo sterminio dei bambini, spiega Bruno Maida in un libro che non avremmo mai voluto leggere ma che era necessario scrivere, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938-1945 (Einaudi, pp. 345, € 29) non era un corollario della soluzione finale. Era invece la fase cruciale e determinante dello sradicamento di questa presunta razza – «I bambini crescono e diventano schifosi ebrei», rispose l’ufficiale tedesco responsabile della strage di Meina a qualcuno che gli chiedeva ragione di quella assurdità. Ammazzando i bambini si cancellava il futuro, oltre che il presente. E questa impresa fu metodica, drastica. «Nel carcere femminile di Varese, la tredicenne Liliana Segre entrò sola, fu fotografata, le vennero prese le impronte digitali e una secondina la gettò in cella senza una parola»… «Elena, sei anni, venne arrestata con la mamma Francesca, malgrado fosse figlia di un matrimonio misto»…

Bruno Maida ripercorre la storia dei bambini italiani in quegli anni in tutte le sue fasi, via via incontro all’orrore. Settecentosettantasei di loro arrivarono ad Auschwitz. «Non posso vedere i bambini che vanno in fila in qualche posto», racconta Ida. «”Vedi i bambini che vanno al circo?”, le chiese il figlio. “Io vedo bambini che vanno al crematorio per mano”, rispose Ida». Ma la Shoah per i bambini ebrei italiani non fu soltanto Auschwitz. Fu l’infanzia rubata a partire da quel 1938 che li marchiò di un’infamia incomprensibile. Le leggi razziali stabilivano, va detto, che bastava un quarto di «sangue» ebraico per essere inclusi nei provvedimenti: da un giorno all’altro si trovarono respinti dall’Italia anche insospettabili famiglie cattoliche con qualche vago antenato ebreo. E i bambini, espulsi da scuola, cacciati dal mondo, dovettero fare i conti con il torto di essere diversi e spregevoli, con il terribile nascondimento del proprio nome, con il rifiuto da parte di tutti gli altri. «Per i genitori era assai difficile spiegare i motivi della persecuzione e quindi l’unica cosa che potevano dire era vietarci di dire di essere ebrei. Non dirlo mai, negarlo di fronte a ogni evidenza, sebbene poi potesse significare interiorizzare gli stereotipi più diffusi».

Prima delle persecuzioni e dei treni merci, infatti, per i bambini ebrei d’Italia ci furono anni di terribile grigiore, di un’esclusione che in loro non destò rabbia o ribellione, magari l’avesse fatto perché sarebbero stati un poco più salvi, ma consapevolezza di un’inferiorità capace di meritarsi quel trattamento da parte del mondo. A tutti loro fu imposta un’identità «sconosciuta e incomprensibile» fondata sulla colpa di essere quello che erano. Poi vennero l’abbandono e la paura, e un silenzio tenace, spaventoso. Se gli adulti cominciarono a parlare, i bambini lo fecero molto più tardi, decenni dopo. «Probabilmente la prima bambina deportata dall’Italia che ha testimoniato fu Arianna Szoreny, nel 1979, all’età di quarantasei anni».

Maida ripercorre queste esistenze, segue con competenza ed estrema delicatezza il viaggio dei bambini dentro quegli anni. Dopo le leggi razziali, la guerra e, se andava bene, l’abbandono del proprio mondo per una clandestinità salvifica. Anche questo fu un trauma: «Le valigie sono rimaste, nella memoria infantile, un segno fisico di quella condizione di sospensione nella quale gli ebrei si trovarono». Le valigie, gli oggetti cari lasciati a casa con la quasi certezza di non rivederli più. E le fughe quando i tedeschi erano vicini, le cantine buie dove aspettare che se ne andassero, gli arresti, la prigione, gli appelli nel campo di raccolta, i treni merci e le settimane di viaggio verso l’ignoto. E la piattaforma di Auschwitz, la selezione, le finte docce che schizzavano gas. E i forni crematori e quel fumo che usciva dalle ciminiere. E continua a uscire, da allora, per tutti quelli che sono rimasti e che sono venuti dopo.

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