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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.01.2013 Al funerale del terrorista Gallinari con pugni alzati e kefia palestinese
l'odio per Israele mette tutti d'accordo. Commento di Pierluigi Battista. Andrea Casalegno intervistato da Marco Imarisio

Testata: Corriere della Sera
Data: 21 gennaio 2013
Pagina: 1
Autore: Pierluigi Battista - Marco Imarisio
Titolo: «Un'offesa alla memoria delle vittime - Casalegno: i pugni chiusi segnano la loro sconfitta»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/01/2013, a pag. 1-15, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo " Un'offesa alla memoria delle vittime ", a pag. 15, l'intervista di Marco Imarisio ad Andrea Casalegno dal titolo " Casalegno: i pugni chiusi segnano la loro sconfitta ".

a destra, la bara dell'ex Br Gallinari, con sopra una kefiah palestinese.
Ecco i pezzi:

Pierluigi Battista - " Un'offesa alla memoria delle vittime "


Pierluigi Battista

Chi ha fatto dei funerali di Prospero Gallinari una patetica e irritante adunata di nostalgici incanutiti non ha reso un buon servizio né alla causa cui si voleva rendere omaggio, né all'amico (e compagno) che si voleva accompagnare nell’addio a questa terra. Non si sa se l’Internazionale e l’ostentazione dei pugni chiusi abbiano commosso le pattuglie dei reduci. Di certo l'apologia del brigatista irriducibile ha offeso la memoria di una tragedia che ha personalmente toccato tanti italiani e non ha contribuito a chiudere definitivamente una pagina orribile e cruenta della nostra storia.
Orribile e cruenta. Senza attenuanti e giustificazionismi. E senza nessuna possibilità di riscatto postumo per i carnefici che dichiararono unilateralmente guerra allo Stato e alle persone che lo servivano. Assassini politici che fecero stragi di innocenti: poliziotti, magistrati, sindacalisti, avvocati, giornalisti, cittadini comuni. Perciò appare quasi incredibile che esponenti di rilievo di Rifondazione comunista, oggi alleata della lista di Ingroia, abbiano voluto partecipare a una distorsione così grottesca di una cerimonia funebre. Ed è ancora più incredibile, che, con l'occhio umido per la scomparsa di un uomo definito testualmente «combattente per la rivoluzione», si sia voluto paragonare sul Manifesto il funerale di Gallinari a quello dei «morti di Reggio Emilia». Come se non ci fosse nessuna differenza tra chi rimase ucciso nei terribili scontri di piazza del '60, con tanti giovani che manifestavano contro il fascismo, e chi ha trascorso alcuni anni della propria vita ad abbracciare la strada della clandestinità, pedinare le sue vittime, ad ammazzarle a sangue freddo nel nome di un'ideologia rivoluzionaria e con un fanatismo glaciale il cui ricordo ancora non cessa di stupire.
Non è in discussione l'affetto che gli amici e i sodali di Gallinari hanno voluto manifestare accanto alla bara di chi è appena scomparso. Il cordoglio è un sentimento inviolabile, e che va rispettato sempre. Non si rispetta invece la manipolazione fintamente sentimentale di chi nobilita la propria identità e l'identità di chi si è arruolato nel terrorismo italiano, cancellando come se non esistesse il ricordo delle vittime innocenti del delirio ideologico di allora.
Cosa devono dire i parenti degli uomini della scorta di Moro trucidati a via Fani il 16 marzo del '78 di fronte alle scene dei reduci che hanno fatto di un funerale la rivendicazione di un loro passato ancora considerato come un periodo di generosa grandezza e di idealismo? Perciò quei pugni chiusi al funerale di Gallinari inducono più alla rabbia che alla pena per una cerimonia che può assomigliare all'adunata dei nostalgici di Stalin in una Mosca in cui la bandiera rossa non sventola più dal Cremlino. E non solo perché è stata stravolta una verità storica, ma perché si trasmette il messaggio, a chi, ancora giovanissimo, fosse tentato di imbracciare le armi come atto estremo di «giustizia rivoluzionaria», che ciò che è stato fatto allora non è tutto da annullare come pura negatività, morte e dolore.
I conti con la storia vanno chiusi, una buona volta. Comprendendo il risentimento inestinguibile di chi ha visto stroncate le vite dei propri cari, ma non facendosi intrappolare dalla spirale dei ricordi che tengono sempre aperte le ferite del passato. Da qualche anno, nella memorialistica e nella storiografia e persino nelle occasioni istituzionali fortemente volute dal presidente Napolitano, le vittime del terrorismo hanno ripreso quella centralità che sembrava annichilita da una «dittatura del ricordo» monopolizzata esclusivamente dai loro carnefici. Nella cerimonia funebre per Gallinari, le vittime sono di nuovo scomparse, inghiottite dalla rappresentazione di un gruppo di reduci che ha voluto apertamente rivendicare un legame con la storia e la biografia dei protagonisti di quella stagione. Un'altra ingiustizia si è nuovamente, e inaspettatamente, consumata nel clamore mediatico suscitato da quei pugni chiusi e dalla presenza di attuali esponenti della politica dell'estrema sinistra a una cerimonia in cui si celebrava il brigatismo più ancora che l'umanità di un brigatista la cui morte esige il rispetto di chiunque. Non se ne sentiva il bisogno.

Marco Imarisio - "  Casalegno: i pugni chiusi segnano la loro sconfitta "


Andrea Casalegno

«Va bene così. Quel funerale con tanti ex terroristi a pugni chiusi rappresenta comunque una vittoria della democrazia».
Andrea Casalegno, 68 anni, saggista e traduttore. Figlio di Carlo, azionista e partigiano, vicedirettore de La Stampa ucciso dalle Brigate rosse nel 1977. A quel tempo lui era un redattore dell'Einaudi, ex militante di Lotta continua. La sua intervista al quotidiano del movimento segnò per molti l'inizio della presa di coscienza a sinistra nei confronti del terrorismo. Poi molto silenzio. Fino al 2008, quando pubblica L'attentato, edito da Chiare Lettere, libro intenso che rievoca quegli anni terribili. Giudizi netti. «Non si diventa mai ex assassini» scrisse. Adesso ha qualcosa da dire sulle esequie di Prospero Gallinari e le celebrazioni dedicate in rete al terrorista delle Br appena scomparso.
Ma davvero c'è ancora bisogno di queste vittorie?
«Un regime, come quello che pensavano di combattere loro, avrebbe impedito il funerale, i cori, gli striscioni, persino la nostalgia online per quell'epoca di sangue. Invece è stata un'altra dimostrazione del loro grande errore: i terroristi combattevano contro uno Stato che dopo aver vinto, gli permette di onorare i loro morti, come vogliono, dicendo quel che vogliono».
Cosa non andava in quel funerale?
«La commozione degli amici per il defunto è più che legittima, ci mancherebbe altro. E gli aspetti rituali come il pugno chiuso e il canto dell'Internazionale non devono essere considerati peggio di altri. Io stesso ho partecipato all'estremo saluto di vecchi compagni di Lotta continua allo stesso modo. Ma se partendo da Gallinari si arriva a riesumare una mitologia rivoluzionaria che era già morta quando lui agiva, allora c'è un problema».
Non è una questione che riguarda solo pochi reduci che partecipavano a un funerale in un paese sperduto?
«Ho l'impressione che il ricorso sempre più diffuso alla mitologia rivoluzionaria stia diventando un modo per rivendicare fuori tempo massimo la giustezza di scelte eversive che hanno fatto solo del gran male alle forze progressiste e alla classe operaia».
C'entra qualcosa la biografia di Gallinari, brigatista mai pentito?
«Attraverso la sua figura si cerca appunto di giustificare certe scelte. Ma anche a isolarla come una storia individuale e non collettiva, la sua è stata un'ottusa aderenza a una visione sbagliata fin dall'inizio. Ci è sempre apparso chiaro: non si fa la rivoluzione ammazzando la gente».
Proletario, irriducibile, figlio dell'Emilia rossa. Gallinari come simbolo della «resistenza tradita» all'origine del terrorismo?
«Appunto. Gli elogi a quel che alcuni, spero pochi, vedevano in lui, rinnovano il presunto tratto mitologico del terrorismo. Gli conferiscono una patina di nobiltà che nei fatti non è mai esistita».
Molti terroristi si sentivano partigiani.
«Quella pretesa di parentela è sempre stata patetica dal punto di vista individuale, mostruosa da quello storico. I partigiani combattevano contro fascisti e nazisti, loro contro una democrazia, e nel farlo hanno contribuito alla fine della classe operaia che volevano difendere. Erano solo distaccati dalla realtà».
Oggi è chiaro a tutti, ma ieri?
«Questo distacco è sempre stato mascherato dalla simpatia ideologica che molti provavano per il terrorismo di sinistra. Le Brigate rosse, Prima linea e tutti gli altri si battevano per un obiettivo non realizzabile, soprattutto usando i loro mezzi. Un funerale non può essere lo strumento per affermare l'improbabile bontà delle azioni di chi è stato sconfitto non avendo mai avuto la possibilità di vincere».
La crisi, con la rabbia e la frustrazione sociale che genera, incide sulla visione idealizzata del terrorismo anni Settanta che ogni tanto appare su Internet?
«È possibile. Certo che Gallinari era un proletario, come ho letto su qualche bacheca. Ma non per questo le sue idee erano giuste. Colgo due elementi: da un lato una sorta di esibizionismo e dall'altro, anche se la categoria va usata con parsimonia, c'è la stupidità. Invece di semplificare la realtà e coglierne l'essenziale, si finisce con l'apprezzare la marginalità, producendo l'elogio della "nobile" sconfitta. Assurdo».
Resta la rabbia.
«In qualche modo si deve esprimere. "Bisogna sparare a tutti i politici", "In fondo i terroristi erano in buona fede". Alcune frasi si sentono anche per strada. Gallinari in buona fede? Anche molti fascisti lo erano, ma non per questo è il caso di mitizzare Salò. Un conto è lo sfogo. Ma sulla ricostruzione del passato occorre essere rigorosi».
Alcuni protagonisti di quella stagione sostengono che questo è il punto di vista dei vincitori.
«L'essenza della stortura è proprio questa. Non c'è nessun vincitore, perché non c'è stata nessuna guerra civile e quindi nessun partigiano. C'erano gruppi di poche persone, come Prospero Gallinari, che si erano autonominate combattenti. Hanno compiuto una lunga serie di assurdi omicidi, molti di essi generati della pura coazione a ripetere. Chi non c'è più riposi in pace. Ma non c'è proprio nessuna parabola da rivalutare».

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