Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 21/01/2013, a pag. 16, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " L'Europa si sta muovendo goffamente, ma almeno si unisce contro al Qaeda ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Sardine e satellitari, i jihadisti del deserto ". Dalla STAMPA, a pag. 1-11, il reportaga di Domenico Quirico dal titolo " Con gli islamisti assediati in Mali dai francesi ".
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " L'Europa si sta muovendo goffamente, ma almeno si unisce contro al Qaeda "
Fiamma Nirenstein
Va bene: l'Europa quando si muove non può altro che rappresentare i suoi interni pasticci, le sue infinite debolezze, la sua storia coloniale, l'interesse che sempre giace sotto ogni sua azione, l'odio franco-tedesco, il tentennamento italiano, la stizza britannica... d'accordo. Ma la serietà della situazione travalica le nostre sciocchezze, è una specie di esame di maturità che nella vita ti costriunge a crescere a capire. Chi l'avrebbe mai detto che l'Europa, e la Francia in primis, campionessa di politically correct, avrebbe finalmente osato pronunciare l'espressione «estremismo islamico» senza limitarsi a tremare, senza accontentarsi di velarlo di parole che lo allontanano da noi. Invece è accaduto: lo jihadismo ci minaccia, è una guerra, Al Qaida è pericolosa perché se si impossessa di uno stato può conquistare l'Africa e può organizzare il terrore a casa nostra, in Europa. I qaedisti che minacciavano, o minacciano, di estendere il loro regno dal nord al sud del Mali, fino a Konna e poi a Mopti e poi alla capitale Bamakò, se avessero avuto, se avessero successo, nella loro operazione compiuta non solo con forze autoctone ma anche con lo strisciante esercito jihadista africano e mediorentale, avrebbero modo non solo di stabilire una pesante dittatura della Sharia (lo raccontano i 92mila profughi a Mbera in Mauritania che i quaedisti «impongono la sharia sulla punta del fucile sui musulmani maliani») ma di usare le loro conquiste per una grande operazione di dominio territoriale. Come dice il loro padre spirituale Al Banna nel 1928: «L'Islam deve per sua natura estendere la sua legge su tutte le nazioni e il suo potere sull'intero pianeta». Questo è il disegno qaedista, condiviso da gruppi algerini, dell'Arabia Saudita, del Kuwait, del Sudan, della Somalia, dell'Oman, della Giordania... la loro forza si è enormemente espansa nella confusione delle Primavere Arabe dominate dai Fratelli Musulmani, e nella nostra debolezza.
Il Mali è apparso un boccone facile, e invece, com'è come non è, l'Europa si è svegliata.
Non tutta, non bene, ma comincia a capire qualcosa. Quando il leader dei miliziani algerini (di ascendenze afghane) Mokhtar Belmokhtar chiede il rilascio di due superterrorristi globali di Al Qaida ci parla delle ambizioni globali del suo movimento, e della sua forza. Stai a vedere che lo abbiamo quasi capito.
www.fiammanirenstein.com
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Sardine e satellitari, i jihadisti del deserto "
Guido Olimpio Mokhtar Belmokhtar
WASHINGTON — I predoni sono spartani, frugali, tenaci. Il deserto è la loro casa, il cielo è il loro tetto. E usano la tecnologia per tenersi legati con l'esterno. Un perfetto connubio tra antiche tattiche e modernità che trasforma i terroristi in un avversario letale. Robert Fowler, un diplomatico canadese rapito nel 2008 da Mokhtar Belmokhtar, ha raccontato in un diario straordinario quale sia la vita dei jihadisti.
Partiamo dal cibo. La dieta dei militanti è composta da riso, pasta, sardine e pomodori. Scorte che arrivano nei campi-base attraverso i corrieri a bordo degli inesauribili pickup. Per bere si arrangiano con l'acqua raccolta nei bidoni usati, talvolta, anche per il carburante. Ogni goccia è preziosa così non li puliscono bene e risparmiano anche sull'igiene personale. Per travasarla — racconta Fowler — utilizzano lo stesso tubo con il quale riempiono il serbatoio della jeep. Si può intuire quale sia il sapore. I banditi cambiano menu andando a caccia. La «storia» dice che lo stesso Belmokhtar abbia abbattuto migliaia di gazzelle poi cotte allo spiedo. Durante i raid che li costringono a coprire distanze notevoli i militanti sfruttano dei nascondigli preparati nel tempo. Una rete di depositi dove ci sono scarpe — si rompono facilmente —, vestiti, rifornimenti d'ogni tipo. Secondo l'ex ostaggio nessuno si azzarda a toccarli perché sa che verrebbe punito. Durante la prigionia di Fowler uno dei terroristi ha osato rubare un pacco di biscotti e quando lo hanno scoperto era palpabile «la vergogna». Tagliano la gola, ma guai a fregarsi i dolcetti.
Le formazioni armate sono miste. Gli arabi hanno posizioni di comando, gli africani obbediscono. Seguono un Islam basico, con una visione semplicistica sostenuta dall'odio verso gli occidentali. Delle colonne fanno parte anche minorenni, ragazzi tra i 12 e 13 anni, impegnati con compiti di supporto. Sono estremamente puritani. Non si mostrano mai nudi, se un ostaggio deve fare i suoi bisogni «ha l'ordine di stare lontano dagli occhi delle sentinelle» al punto che se non fosse per il deserto potrebbe scappare. Il rigore dei costumi non impedisce però — sottolinea Fowler — il rapporto ambiguo tra i terroristi più anziani e quelli più giovani. Questo è un mondo senza donne, le uniche che vedono sono quelli dei villaggi dei pastori. Infatti, alcuni le sposano per rinsaldare i legami locali.
Mentre si muovono nei grandi spazi tra Niger, Mali, Algeria e Libia i seguaci di Belmokhtar si tengono informati. Per seguire l'attualità e monitorare i media quando hanno in mano degli ostaggi. La prima fonte sono le radio a onde corte dove ascoltano Radio France Internationale, Bbc in arabo e qualche altra emittente. Nella pause dei trasferimenti si connettono con il computer e telefoni satellitari per cercare informazioni specifiche. Secondo Fowler, all'epoca della sua detenzione, c'era un mauritano, Julabib, che era l'addetto stampa di Belmokhtar. Era lui a registrare i video poi inviati alle tv arabe, era ancora lui a lavorare con il Photoshop sulle immagini degli ostaggi. Rispetto ad altre fazioni, quella del «guercio» è apparsa la più abile nella diffusione dei messaggi. E anche durante l'attacco in Algeria la cellula ha mantenuto un filo diretto con l'agenzia di stampa mauritana.
Per comunicare, gli estremisti hanno i satellitari ma si appoggiano anche alle reti dei cellulari locali, ovviamente dove c'è copertura. Sempre Fowler ha raccontato che in diverse occasioni il gruppo dei suoi rapitori raggiungeva una collina vicino al confine con l'Algeria e «lavorava» al computer per comprare la ricarica. In pochi istanti il telefonino era di nuovo pronto. E con quello non chiamavano la mamma, ma conducevano le trattive sugli ostaggi. Negoziati estenuanti, che durano mesi e che si concludono con il pagamento di un riscatto milionario. Somme di denaro importanti che i seguaci della falange della morte neppure sfiorano. A loro basta il deserto e la Jihad.
La STAMPA - Domenico Quirico : " Con gli islamisti assediati in Mali dai francesi"
Domenico Quirico
Il mattino era puro come se non ci fosse guerra. E invece era il minuto in cui per loro, francesi e maliani, la guerra incomincia. Non c’è nome per designare la sensazione di andare verso il nemico; eppure è tanto specifica, tanto forte, come il desiderio sessuale e l’angoscia. L’universo diviene una indifferente minaccia.
Sarà oggi che dovranno morire? La guerra era là oltre il ponte sul canale, non c’era altro che seguire quella strada, fino a Diabaly, la spina che i ribelli e i jihadisti hanno piantato, a sorpresa, lunedì scorso nel fianco dell’operazione per riconquistare il Nord. Abu Zeid, «il macellaio», l’emiro del deserto, sa bene giocare le sue carte. Per liberarsi di Diabaly i francesi hanno dovuto fermare l’operazione sul fronte Nord, verso Gao e Timbuctu. Troppo esigue ancora le forze, per dividersi a grande distanza.
Hanno scelto bene per colpire. Questa è zona wahabita, qui le tombe dei santoni riveriti da secoli richiamano pellegrinaggi e fervori. Qui parte della popolazione simpatizza per la guerra santa. Gli uomini di Abu Zeid si battono casa per casa, con ferocia, determinazione, abilità. La città che i francesi davano «ufficialmente» libera da tre giorni è ancora incerta, i sessanta chilometri che collegano Niono e Diabaly sono terra di nessuno.
I jihaidisti si sono tagliati la barba, hanno nascosto le divise sotto i barracani, scivolano tra la popolazione dei contadini e dei mercanti. Ieri sera due di loro sono stati arrestati a un centinaio di metri dalla casa dove ho dormito: erano venuti a comprare carne pane viveri.
Una dopo l’altra le sezioni dei blindati francesi e dei pick up maliani salpano sottoilsoledelmattino.Semprelastessastradafiancheggiatadaipovericampi di canna da zucchero e l’asfalto stanco sotto le ruote dei carri. La noia dei convogli sulle strade di pianura. La nostra, la loro ultima strada di noia: ormai oltre il ponte sul canale all’uscita da Niono sarà l’esaltazione o la paura. Andavamo, dunque, verso il nemico. L’attenzione, dopo una, due ore di attesa, si è smorzata sotto la cappa di polvere di calore e il ronfare dei motori che sembrano pestare in testa oltre che sulla strada. Riconoscevo quei visi quando uscivano dai blindati dopo una lunga tappa,ivisiflaccidinegliocchichesbattevano come dopo una mazzata, sotto gli elmetti da moderni lanzichenecchi.
L’arrivo dei francesi ieri nella sera a Niono: tutti i simboli e le sfaccettature di questa storia. Quando li hanno annunziati, in lunga colonna, davanti i pick-up maliani ad aprire la fila, la via principale iniziava la sua vita sonnambula attorno alle botteghe di frasche, di lamiera e di canne, illuminata da una luce di altri tempi, con le sue viuzze perpendicolari di polvere e immondizia dove lucignoli tremolano in fondo all’Africa eterna. Si spengonoapocoapocoidischideivenditori di musica, nei caffè semivuoti avventori un po’ accasciati dividono l’attesa tra la partita di Coppa d’Africa e quella dei moderni, liberatori mostri guerra.
Che guerre diverse quelle di questi strani alleati, i maliani e i francesi. I blindati francesi sono alti come cattedrali, trasformano con le ruote in grumi di sangue caprette incaute che traversano la strada. I mezzi dei maliani: quelli hanno strane mimetizzazioni azzurre da sembrare quadri astratti, e ruote bianche come le Cadillac degli Anni 50. Trabondano di pentole, di sedie, di masserizie come se andassero non a una guerra ma a una migrazione. E i volti: i francesi sono vitaminici, allegri, sorridenti; la guerra, questa guerra, si vede bene, non li spaventa, ma li eccita li tenta. I maliani hanno volti tristi, inconfondibili e indimenticabili. Impacciati nelle divise nuove perché sono nuove e nelle vecchie perché sono sporche. È come se ognuno fosse sprofondato nella sua privata amarezza. Ah, che la vittoria rimanga a quelli che la guerra hanno fatto senza amarla.
Abu è un piccolo soldato maliano. Era a Diabaly e mi racconta, con gli occhi bassi, quel giorno: «Sono arrivati alle sei del mattino, i jihadisti. C’erano degli abitanti della città che li avevano informati, sapevano tutto. Che i francesi arrivati per visionare il terreno e preparare le difese se n’erano appena andati. Alle sei si sono infiltrati in città, dappertutto. Erano più numerosi di noi, più armati. Il nostro comandante ci ha detto: scappate, inutile farsi ammazzare. E così abbiamo ripiegato». La sua bocca si sporge in avanti, i sopraccigli si alzano e pare che, strappata la maschera di guerriero, si sveli di colpo la sua anima incurabilmente infantile.
Il tenente francese incaricato di aiutare i giornalisti è una ragazza con i capelli biondi e il viso scaltro del tipo che ti guarda tranquillo dallo sfondo scuro di certi quadri fiamminghi. I suoi occhi azzurri sono pieni di calore e di umorismo quando ti racconta piccole bugie per non farti muovere da alcuna parte «per sicurezza» e nel suo racconto mette altrettanta malizia quanta gaiezza.
Finalmente qualche civile si affaccia. Un anziano ha indossato sul bubu una enorme bandiera francese e grida «Viva Hollande». I francesi sfilano lesti, sorridono, fanno segni di vittoria. La colonna la chiude un’ambulanza, maliana, come nelle corse ciclistiche amatoriali.
Due «rafales» ci sorvolano bassissimi, non più di duecento metri, diretti verso Diabaly. Ah la guerra senza contraerea, senza rischi! Con i suoi baobab ramificati come vene, l’universo mattutino della campagna è pieno e misterioso come un giovane corpo. I contadini alzano appena gli occhi dalla gleba a guardare gli aerei, indifferenti.
Che guerra facciamo qui, che guerra fa la Francia? I colonizzati applaudono i moderni meccanismi omicidi e salutano come «liberatori» i vecchi padroni: liberatori che hanno spolpato per un secolo queste terre, che vivono ancora delle rendite sequestrate a questa miseria. Mettendo gli uni contro gli altri, nordisti e sudisti, neri e tuareg. Un maliano, un maestro, ascolta queste tesi terzomondiste, mi risponde con il silenzio, con simpatia assente, come se contemporaneamente guardasse oltre.
Ora siamo oltre il ponte, Diabaly ci aspetta. Un uomo grosso grida «Viva la Francia»; e poi aggiunge: «Stavolta non limitatevi a cacciarli, sterminateli tutti».
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