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Il Giornale - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
21.01.2013 Le elezioni israeliane viste dai quotidiani italiani
cronache di Rolla Scolari, Francesca Paci, Bernardo Valli

Testata:Il Giornale - La Stampa - La Repubblica
Autore: Rolla Scolari - Francesca Paci - Bernardo Valli
Titolo: «Dagli ortodossi ai giovani laici Israele si riscopre di destra - Israele al voto dimentica la questione palestinese - L'ombra della destra hi-tech»

Domani si vota in Israele.
Notiamo che i quotidiani italiani continuano a puntare sull'elettorato ortodosso alle urne. La scelta delle immagini, quasi del tutto riguardanti i partiti religiosi, è significativa. Gli ultraortodossi rappresenteranno meno del 10% della composizione della Knesset, eppure fanno notizia come se fossero la maggioranza.
Significativo anche l'utilizzo del termine 'falco', appiccicato a qualunque schieramento non sia di sinistra.
Il commento di IC sulle elezioni è contenuto nel pezzo di Manfred Gerstenfeld, pubblicato in altra pagina della rassegna (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=360&id=47793).

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 21/01/2013, a pag. 14, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Israele al voto dimentica la questione palestinese ". Dalla STAMPA, a pag. 16, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Dagli ortodossi ai giovani laici, Israele si riscopre di destra ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-23, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " L'ombra della destra hi-tech ".

Il GIORNALE - Rolla Scolari : "Israele al voto dimentica la questione palestinese"


Rolla Scolari

L'Unione europea starebbe preparando un piano dettagliato per riattivare i colloqui di pace tra israelia­ni e palestinesi, ha scritto pochi gior­ni fa la stampa israeliana. È stato for­se uno dei rari accenni al processo di pace sui giornali locali nei giorni del­la campagna elettorale. Israele vota alle legislative domani. Sui manife­sti, nei talk show serali, ai comizi i poli­tici parlano molto di economia, pro­blemi sociali, sicurezza, poco di co­me trovare una soluzione al decenna­le conflitto arabo-israeliano.
I numeri raccontano da tempo la rielezione certa del premier Benja­min Netanyahu. Anche se l'ultimo sondaggio pubblicato venerdì è stato il peggiore per il primo ministro nell' intera campagna, il blocco di destra da lui guidato dovrebbe conquistare 63 seggi su 120, abbastanza per otte­nere il mandato di formare il gover­no. La sinistra ha fallito nel creare un blocco unificato contro la compattez­za della destra e l'opposizione laburi­sta dovrebbe arrivare soltanto a 17 seggi.
«Non c'è stato nessun argomento portante della campagna perché la questione è la rielezione del pre­mier
», spiega Mitchell Barak, un ex as­sistente di Netanyahu che lavora oggi come sondaggista. Il partito del pri­mo ministro, il Likud, non ha neppu­re pubblicato una piattaforma, lo fa­rà dopo il voto. Lo slogan elettorale di Netanyahu, che nel 2009 per la prima volta ha pubblicamente detto di so­stenere la soluzione a due Stati, non parla di processo di pace, ma insiste sulla sicurezza: «Un premier forte per un Israele forte». La nuova star della politica israeliana, Naftali Bennett, a capo di un partito ultra-nazionalista religioso che ruba voti al premier, ha fatto parlare di sé all'estero per la sua decisa contrarietà alla nascita di uno Stato palestinese ma, notano gli anali­sti, quando si rivolge agli israeliani il 40enne imprenditore, a suo agio ne­gli insediamenti della Cisgiordania come nella Tel Aviv più Itech, parla di problemi sociali ed educazione più che del conflitto. Soltanto il debole centro dell'ex mi­nistro degli Esteri Tzipi Livni, con lo slogan «La speranza sconfig­ge la paura », ha inseri­to la questione pale­stinese in agenda. Per­fino la sinistra laburi­sta, per anni al centro de­gli sforzi di pace, in queste elezioni si è concentrata sull' economia, in un Paese dove il mal­contento sociale per i prezzi di ali­menti e abitazioni è in forte crescita e gli stipendi restano immutati. Tra gli slogan del capo dell'opposizione, l'ex giornalista Shelly Yachimovich c'è: «Bibi (Netanyahu) va bene per i ricchi. Shelly va bene per te». E ai pri­mi posti della lista laburista ci sono due giovani leader delle contestazio­ni sociali del 2011, Itzik Shmuli e Stav Shaffir. «Non è vero che non si parla più di processo di pace, si parla di quello ma anche d'altro», ha detto Stav, 27 anni, al Giornale. Eppure, i numeri sono chiari: secondo un re­cente sondaggio, per il 43% dei proba­bili elettori la questione più im­portante in queste elezioni è l'economia. Soltanto il 16% pensa che «la dete­riorazione delle rela­zioni con i palestine­si » sia argomento cen­trale. Altre rilevazioni raccontano che il 60% degli israeliani è in favo­re a una soluzione a due Stati. Non crede però sia rea­lizzabile al momento. Gli attac­chi terroristici sono diminuiti drasti­camente, nel Paese c'è relativa sicu­rezza. Dopo anni di tentativi di com­promesso falliti, il pubblico israelia­no è disilluso, i politici preferiscono gestire il conflitto piuttosto che risol­verlo, mantenendo lo status quo, spiega Stephen Miller, il sondaggista che ha lavorato ai numeri sopra.

La STAMPA - Francesca Paci : " Dagli ortodossi ai giovani laici, Israele si riscopre di destra "


Francesca Paci                Bibi Netanyahu

«Noi» significa Otzma Israel, il piccolo partito d’iperdestra che alle 19esime elezioni parlamentari di domani avrà il voto di Shira Kadishson, 51 anni, 4 figli, psicologa dell’età infantile, una passione per l’architettura di Gehry traboccante dalle pareti piene di libri. Se non fosse per la bandiera con la stella di David sulla veranda con vista su Ramat Aviv, quartiere verde di Tel Aviv dove ha sede l’università, Shira con i capelli sale e pepe e l’ostentata avversione per la tv sarebbe un’icona di sinistra. Guida il sabato in barba ai precetti religiosi, difende il welfare orgoglio del socialismo nazionale e non s’appassiona affatto al capitalismo americano, vanta amici laburisti e arabi, ma non parlatele di Oslo: «I palestinesi hanno già unapatria,laGiordania.Ipoliticiisraeliani, a cominciare da Bibi, stanno svendendo la terra dove secondo la Bibbia e il Corano vivevamo prima di tutti, ma gli alberi senza radici muoiono». E che piaccia o meno ai laici, osserva Steven Cook del Council of Foreign Affairs, le radici d’Israele sono anche religiose: «Dopotutto, cosa c’entra Tel Aviv con l’ebraismo?».

Otzma Israel, fondato da nostalgici del rabbino fondamentalista Kahane e dell’omologo partito messo al bando nell’88, è una realtà marginale che può sperare in 2, massimo 3 dei 120 seggi della Knesset. Ma la sua eredità, scrive Ami Pedahzur nel saggio «Il trionfo della destra isaeliana», ha seminato nella politica nazionale, compreso nel Likud. Israele sta davvero svoltando a destra? Di certo quando un paio di mesi fa il premier Netanyahu si è associato all’ultranazionalista Lieberman fondendo il Likud con Israel Beitenu (e tirando dentro gente provocatoria come Feiglin, sostenitore dei riti ebraici sulla spianata delle moschee) ha palesato l’urgenza di fortificarsi a destra, dove una galassia di nuove e vecchie formazioni legate ai coloni o agli ultraortodossi (dallo Shas al gruppo del rabbino Amnon Yitzhak) minacciano il suo potere in stile Tea Party assai più della sinistra che, nella sprezzante analisi del portavoce della Knesset Danny Danon (Likud), «è una specie in via d’estinzione».

Lo smottamento a destra però è iniziato da tempo. Dal ’67 per storici. Dagli anni ’80 replicano i politici.

«Se nel 2005, quando Sharon si è ritirato da Gaza, il rapporto con i palestinesi fosse migliorato, oggi le cose sarebbero diverse» ragiona Meron Bitton, 26 anni, laureando in economia, mentre sorseggia vino nel pub Hamezog, un ritrovo di studenti vicino a Rabin square dove una quarantina di under 35 attendono il ristretto comizio di Naftali Bennett.

Bennett, 40 anni, vanto dell’high tech israeliano,fan dell’eroico fratello di Netanyahu Yoni, del gelato al pistacchio e del film «Le ali della libertà», è la grande sorpresa (ormai consolidata) di queste elezioni. Con la kippa piccola alla maniera degli ortodossi moderni, il linguaggio da commilitone con cui chiama gli elettori Aki (fratello), il pedigree nel Likud, sta rosicchiando consensi a Bibi e potrebbe guadagnare una quindicina di seggi. Non se l’aspettava neppure lui, come dimostra l’ingenuità di aver messo al numero 14 uno come Jeremy Gimplel, che oggi suggerisce di far saltare la spianata delle moschee. Ma rivolgendosi ai ragazzi del pub sembra a suo agio nel ruolo di chi tra 4 anni s’immagina premier. «Obbligherò gli haredim (i religiosi) a fare il militare ma poco alla volta» promette, sapendo di toccare uno dei temi più cari all’auditorio. Non è qui che spende l’altro suo cavallo di battaglia, la politica filo-coloni sintetizzata dallo slogan «la terra è nostra». I giovani di Tel Aviv, quelli che l’anno scorso hanno manifestato sul modello di Occupy Wall Street e diversamente dagli abitanti di Gerusalemme o dalla Sderot sotto il tiro di Hamas hanno sempre preferito il dialogo, hanno accantonato le speranze di pace e vedono in Bennett solo un imprenditore di successo.

«L’economia conta più della pace, specie dopo l’avanzata degli islamisti seguita alle primavere arabe: 4 anni fa un appartamento a Tel Aviv costava 700 euro al mese, oggi se sei fortunato ne spendi 1100» spiega l’avvocato 27enne Varoit Wolferman. Non ha ancora deciso per chi votare come un quinto degli oltre 5 milioni di elettori, ma le sue simpatie, come quelle di molti coetanei in bici lungo Rothschild, vanno a Bait Yehudi, il partito di Bennett.

Cosa direbbe Herzl, il fondatore del sionismo cresciuto in una laica casa tedesca e ispiratodalnazionalismoeuropeo,difronte alla sua creatura cooptata dalla destra religiosa? La leadership israeliana è storicamente laica e lo stesso Bibi lavora di sabato.

«La provincia coloniale sta prendendo il sopravvento sulla madrepatria» scrive su Haaretz Ari Shavit. Il punto però, nota l’informatico 25enne David Toshkabho, è che nell’ultimo mezzo secolo Israele legge sempre meno la stampa «illuminata». «I media parlano per pochi intellettuali percepiti come distanti dalla gente, non credo che gli israeliani siano razzisti ma si preoccupano più della propria vita che del Paese» continua Ari. A confermarlo è Ghassam Khatib di Peace Now: «Oggi più che contro l’occupazione ci battiamo contro l’indifferenza».

La sinistra si lecca le ferite e punta tutto sul welfare, i palestinesi sono divisi tra chi teme il peggio e chi pianifica la terza intifada, l’America è lontana. «E’ la speranza di pace che gonfia il vento in poppa alla destra» ripete l’ex enfant prodige di Olmert Tzipi Livni, oggi candidata di HaTnua’. Da queste parti però, dare qualcosa per scontato si è sempre rivelato un errore.

La REPUBBLICA - Bernardo Valli : "L'ombra della destra hi-tech"


Bernardo Valli                 Manifesto elettorale di Naftali Bennett

Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento. E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un’impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell’aspirare al Grande Israele. Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un’estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l’occasione con quello dell’ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.
È senz’altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell’attuale tendenza della società. Quindi merita un’attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze. È ovviamente ben lontano dall’immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale. Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un’ora prima dell’inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l’imminente rituale riposo. Al contrario appaiono in preda a un’indifferenza laica. «Naftali?», dice l’amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. «Naftali è l’estrema destra high tech». Scherza naturalmente. Ma c’è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all’aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzo a edifici più di vetro che di cemento. Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell’abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv. Naftali Bennett rappresenta l’estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell’industria sofisticata, orgoglio di Israele. Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l’ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari. Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersi a una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità. Nonostante il loro estremismo. Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c’è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni. Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l’associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l’aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell’esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell’Israele laburista. A dargli ulteriore credito è l’esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l’attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett. Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l’irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole “palestinese” e “pace” non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combatteva e si moriva a Gaza. E la Palestina dell’Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani, è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell’Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti, e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all’estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c’è scritto: «Un uomo forte per un paese forte». Non c’è bisogno d’altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. Si prodi- ga per far curare i giovani palestinesi ammalati, è favorevole a uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c’è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell’isolamento e al tempo stesso della tendenza all’isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell’alleato americano. È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l’estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall’Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l’Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un’“etnocrazia”. E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di “Crisi del sionismo”, hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico. Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l’hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c’è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l’obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi. Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l’argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull’economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all’Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.

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