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La Stampa-Libero Rassegna Stampa
20.01.2013 Al Qaeda alza la testa, uccisi gli ostaggi
Commenti di Domenico Quirico, Carlo Panella

Testata:La Stampa-Libero
Autore: Domenico Quirico-Carlo Panella
Titolo: «Galassia Al Qaeda in Africa, jihad sacra e loschi traffici-Al Qaeda alla svolta di qualità, questo è il nuovo 11 settembre»

Algeria, il blitz termina con la strage degli  ostaggi.
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/01/2013, a pag.9, il commento di Domenico Quirico. Da LIBERO, quello di Carlo Panella.

La Stampa-Domenico Quirico: " Galassia Al Qaeda in Africa, jihad sacra e loschi traffici "

Il regno dei talebani delle sabbie comincia qui, oltre il fiume; le colonne francesi che slittano verso Nord, con i soldati che nelle soste lucertolizzano al sole, non ci hanno messo piede. Non è ancora il deserto delle lunghe dune morbide come il Nord del Sahara, è roccioso e piatto, scarnificato scheletro bianco e giallo della terra, pieno di ombre e certo brulicante di miraggi. Né valli né monti, respinge qualsiasi forma precisa come se già combattesse l’occhio umano, intruso nella sua solitudine planetaria. È opaco e inafferrabile come i suoi padroni, l’ultima trasformazione del Proteo al Qaeda: nella sabbia sono come incisi innumerevoli fiumi inariditi da remote ere geologiche, come alberi senza foglie o reticoli di vene, fino all’orizzonte. Il Sahara: un mondo antico trema sui cardini, e, assuefatti o sgomenti, non ce ne siamo accorti. Resta un regno vietato fino a quando i liberatori non lo percorreranno, immenso dove il sole arroventa gli abiti, capace di ingoiare nei vortici di sabbia armate intere, dove il soldato occidentale e l’alleato venuto dall’Africa nera fondono come cera.

Hanno scelto bene, i capi di al Qaeda, il nuovo terreno di lotta. Qui al Qaeda è diventata altra e capace ancor più di nuocerci. Si torse verso l’Africa dove ripullulano scontenti ire rancori. L’energia facinorosa di un gruppo di emiri algerini l’hanno trasformata in creatura del deserto, mescolando astutamente il jihad sacra ai traffici più loschi, rendendola ricca e più sfuggente, imparentandola con i tuareg attraverso le donne che hanno portato nei loro letti di lesti guerrieri. I nomi qui contano, non si può lasciarli sommersi.

Leggete la vita del trafficante Mokhtar, decifrate il suo arsenale di astuzie e perfidie, la straordinaria abilità istrionica di onnipotente rimestatore di tutte le faccende. La sua (ambigua) jihad è iniziata con il Piccolo Pellegrinaggio nel 1990 alla Mecca. Era un ragazzo di una pia famiglia algerina che, spigolando sugli opuscoli, si innamora delle leggende dei mujaheddin che azzannano i russi in Afghanistan. Storie di effetto adescante, in quegli anni di embrioni integralisti. Partono in tre, l’anno dopo: tra le montagne costruisce la sua leggenda. Incontra, si dice, al Zarqawi, che farà soffrire gli americani in Iraq. Perde un occhio, assicura la sua leggenda, combattendo contro i russi. Improbabile: si sono già ritirati da un anno. Un incidente di addestramento, dunque: ma quando torna in Algeria con «gli afghani», i reduci, nessuno fa i conti. Sono i tempi criminofagi del Gia, poi dei salafiti; lui è «il guercio». Un soprannome che non durerà: diventa presto Mister Marlboro, perché traffica in tutto, sigarette auto diamanti droga armi uomini.

È un uomo ricco, capta lucri palpabili e nel Nord del Mali, nel deserto, ha stretto legami efficaci, distribuito denaro e lavoro, è diventato un boss. Ha inventato una tattica: muoversi in continuazione con la sua «katiba», evitare pericolose battaglie con gli eserciti. E dare denaro a tutti in un luogo dove tutte le monete trovano buon uso e mani tese a riceverle. Così i suoi convogli clandestini sfilano sicuri, e a poco a poco Mister Marlboro si affranca dal guinzaglio corto degli emiri algerini. Il deserto, roba sua. Ma sa che essere trafficante non basta, bisogna mostrare anche risolutezza fino alla ferocia di grana tagliente. Nel 2008 massacra una decina di soldati mauritani: il terrore crea rispetto.

Nel marzo dello scorso anno lo scorgono in Libia: compra armi, ha fiutato il vento, in un vertice in Mali con gli altri emiri si divide il territorio liberato, immenso. Molti sostengono che la sua jihad è marcia, il veleno del trafficante l’ha marchiato e se conviene saprebbe anche tradire. Ma ora anche per lui la guerra è senza ritorno.

Abdelmalek Droukdel è, in teoria, il capo di Aqmi, che ha fondato firmando nel 2006 l’alleanza con Bin Laden. Il chimico algerino diventato terrorista. Aveva in tasca la licenza liceale, uno studente modello, quando alla fine degli Anni 80 lo inghiottì il gorgo della guerra civile algerina dalla parte dei folli di Dio. Il Fis gli ordinò di studiare chimica: un investimento redditizio e assassino. Nel ’94 prese la laurea, a pieni voti; ecco un artificiere implacabile e senza rimorsi.

Nel 1998 il laureato svela ambizioni ghiotte, chiede l’alleanza con l’emiro del terrore, vuole una jihad planetaria non la piccola guerriglia kabila. Ma i capi algerini sono nazionalisti, terragni, non vogliono dividere il comando con quel miliardario spocchioso. Allora Droukdel comincia a congiurare con altri luogotenenti inquieti, il terrorismo algerino, dietro le quinte, è un groviglio di guerre feroci e fratricide. L’ecatombe dei capi apre a Droukdel il ruolo di «emiro nazionale». Finalmente può allearsi con al Qaeda, sognare di federare la jihad anche in Libia Tunisia Marocco, fare del Sud dell’Algeria e del Mali un santuario da cui azzannare gli apostati in Europa. È attento al marketing: crea il logo Aqmi per segnare, anche nel nome, la nuova via, importa dall’Iraq i kamikaze, ignoti al terrorismo magrebino.

È nascosto nelle montagne kabile, non è mai sceso a Sud, nel Sahara. Ne corrode il comando l’ambizione dei luogotenenti maliani, ricchi vittoriosi e indipendenti. Non lo ascoltano quando raccomanda di conquistare i cuori della gente del deserto, di non applicare subito la sharia. Impartisce aforismi e dettami inascoltati. Presto, forse, lo detronizzeranno.

Abu Zeid, il signore di Timbuctu, scarno come una saetta, ama esser considerato un fanatico, un sanguinario freddo che vive serenamente tra i sacri delitti come un altro tra i crediti. Ma nella sua biografia, incerta, ci sono arresti e prigione per contrabbando. La sua biografia ufficiale e poliziesca imbratta poca carta. Molte invece le voci. La Cia pensa si chiami Hammadu, nato a Touggourt. Falso: è un’identità posticcia, rubata a un morto. Il suo nome vero è, probabilmente, Mohamed Ghedir, nato alla frontiera tra Algeria e Libia, a Debdeb. Ai tempi del Fis e del Gia è un capitano come tanti. Per far carriera ha tradito il gruppo salafita scegliendo Belmokhtar, che lo ha fatto emiro del Ciad e del Niger. Conosce i ribelli tuareg e tesse alleanze con loro nel deserto dove regimi corrotti scorticano i nomadi, ovvero i poveri. Raccontano che volesse i gradi di «afghano»; ma l’emissario che Bin Laden gli inviò per fargli da guida fu ucciso. Non ha conosciuto il sangue e la peste del combattimento sulle montagne dove l’Urss ha lasciato brandelli vivi. Ma uccide, Abou Zeid. Con metodo, senza pietà: ostaggi come l’inglese Dyer e il francese Germaneau. Con i delitti vuol dimostrare che lui non è un contrabbandiere, che la sua è vera jihad e che sa terrorizzare gli apostati. Eppure è con i traffici loschi che si arma e si sostiene. Vuole sfruttare il vuoto creato dalle rivoluzioni arabe, capolavoro improvvisato di minoranze, e spedisce pattuglie fanatiche e armate in Tunisia e Libia. Il caos del Mali è un mare dove ormai da ogni parte la matassa si arruffa. Si era installato nel palazzo di Gheddafi a Timbuctu come un padrone. Quando Droukdel cadrà, sarà lui forse il grande boss di Aqmi.

Hamada Olud Keirou non è algerino e in prigione è stato davvero per la jihad. Mauritano, nel 2005 scatenò violenze in una moschea che definiva troppo tiepida. Fuggì di prigione dopo tre mesi, vestito da donna. L’incipit di una leggenda. Lo ripresero nel 2009, assicurava i rifornimenti nel Nord Mali a Belmokhtar : benzina viveri pick-up nascosti nel deserto. Uscì di nuovo dopo un anno: scambiato con un ostaggio francese. Di nascosto: Parigi, dicono, non tratta con i terroristi. Ha fondato un suo gruppo radicale Mujao, i neri, africani tra cui spiccano i boko Haram, che cercano un santuario fuori dalla Nigeria. La sua ascesa sarebbe stata finanziata dal Qatar. È diventato un leader di Aqmi, ma è intrattabile litigioso ribelle: perchè Aqmi è monopolizzata dagli «algerini», dice lui, in realtà pretende più soldi dai traffici. Le sue bandiere nere sventolavano su Gao.

Libero-Carlo Panella: " Al Qaeda alla svolta di qualità, questo è il nuovo 11 settembre "

L’impresa di In Amenas, nel contesto islamico, segna un salto di qualità del jihadismo paragonabile a quella delle Twin Towers: per la simbologia dell’obbiettivo, per la straordinaria efficienza militare, perché, insomma, dimostra alla umma che gli jihadisti sono in grado di impadronirsi di un «pozzo», della fonte di vita dello Stato nemico e di tenerlo per giorni, tanto che la presa di ostaggi è addirittura in sottordine e il riscatto vale solo come «proclama ». In Amenas segnala l’evoluzione verso una fase superiore del fenomeno jihadista nel suo complesso. L’impresa, non solo è stata possibile grazie a evidenti complicità interne alla raffineria e a una capacità di penetrazione straordinaria nel territorio (armi e esplosivi non sono arrivati di colpo, ma sono stati depositati uno a uno da mesi per evitare la strettissima sorveglianza satellitare), ma è coordinata e complementare alla battaglia sul terreno in Mali. Uno scenario inedito tipico di una «guerra di popolo» articolata su due elementi. In Mali, formazioni che combattono una guerra classica, impadronendosi (e perdendo) città e paesi lungo un fronte che punta alla capitale dello Stato. Non più quindi solo guerriglia clandestina (kamikaze, razzie, imboscate, poi ritorno ai covi), ma guerra di conquista, finalizzata alla sua trasformazione in Dar al Islam, Territorio dell’islam. In Algeria, operazione di guerriglia che sfocia nell’occupazio - ne temporanea di una giugulare metanifera, impresa mai tentata neanche durante i dieci anni della guerra civile iniziata nel 1992, che pure vedeva dispiegarsi decine di migliaia di jihadisti. Tutto questo, non come in Somalia, Yemen, Cecenia o in Afghanistan, come ultima fase di un conflitto iniziato con tutt’altre caratteristiche 20-30 anni fa, ma «a freddo». Su uno scenario nuovo: la conquista jihadista, ex abrupto, di un Nord Mali, una regione apparentemente pacifica, in uno Stato che veniva portato ad esempio di «democrazia africana ». Infine, la beffa all’attentissi - mo apparato di sorveglianza algerino è stata il frutto non solo di ottima tecnica militare, ma anche di un profondo impianto politico degli jihadisti nel contesto locale tuareg. Non è un caso che la prima reazione algerina, col massacro di 30 ostaggi, è scattata subito dopo il fallimento della mediazione tentata dai capiclan tuareg locali inviati a trattare dai militari. Quella violenza da macelleria, non è solo connaturata con la violenza feroce con cui il Fnl e lo Stato algerino hanno sempre affrontato gli avversari sin dal 1953. Né si può pensare che il governo algerino non si renda conto delle conseguenze negative della scelta di uccidere cittadini di altri Stati (un conto è massacrare «alla Putin», propri cittadini in ostaggio, ben altro conto è massacrare cittadini di altre nazioni). È stata la posta in gioco a motivare quella reazione feroce, quel disprezzo per la vita degli ostaggi, quel rifiuto di seguire la strada che sempre si segue in questi casi: quantomeno l’allungamento dei tempi, lo sfinimento dei sequestratori. E la posta in gioco in Algeria è la ripresa della ribellione dei berberi della Kabilya, innescata dalla rivolta dei berberi tuareg del Mali e dei loro raccordi politici con i tuareg e gli jihadisti di Illizi (dove si trova In Amenas) e Tamanrasset, che sono la spina dorsale sia della guerra in Mali che di In Amenas. La ripresa della guerra civile, in un contesto di rigetto popolare e diffuso in Algeria della «complicità » con la Francia nella guerra in Mali, testimoniato da tutti i media algerini: questa è la partita che si gioca a In Amenas.

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