Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 18/01/2013, a pag. 3, gli articoli di Maurizio Molinari titolati " Fretta e poca intelligence. Un blitz destinato al flop " e " Monaco, Beslan e “DesertOne” quando le teste di cuoio sbagliano ", a pag. 5, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo "A Bamako amore-odio per gli ex colonizzatori ".
Ecco i pezzi:
Maurizio Molinari - " Fretta e poca intelligence. Un blitz destinato al flop "
Maurizio Molinari
«Hanno pensato al petrolio, non a salvare i sequestrati». Davanti alla strage di ostaggi nel deserto del Sahara, Michael Scheuer, parla di errori dell’esercito algerino. L'ex capo dell’unità della Cia che diede la caccia a Osama bin Laden parla di errori «causati dall’eccesso di velocità dovuta alla fretta». Perché «per l’Algeria contava più eliminare subito ogni minaccia nei confronti dell’industria energetica che non salvare le vite di ostaggi occidentali».
È una lettura che porta Jeffrey White, ex analista di intelligence del Pentagono, a enumerare «cosa può andare male in operazioni di questo tipo». «Anzitutto servono informazioni di intelligence minuziose su dove si trovano edifici, porte e guardie, e per raccoglierle serve tempo, pazienza e tanto lavoro», spiega, sottolineando che «in questo caso gli algerini hanno attaccato neanche 24 ore dopo il sequestro di massa e non potevano avere tutte le informazioni necessarie». Ma anche quanto tutto appare perfetto, qualcosa può andare storto, «come avvenuto alle teste di cuoio francesi nel blitz in Somalia di pochi giorni fa», osserva Scheuer. Da qui la necessità di «disporre di truppe ben addestrate», sottolinea White. «Il disastroso intervento della polizia tedesca alle Olimpiadi di Monaco del 1972 come le stragi di ostaggi causate da un paio di blitz egiziani negli Anni Settanta e Ottanta - ricorda White - si dovettero al fatto di non disporre di unità specializzare nel soccorso di ostaggi e l’esercito algerino ha dimostrato di avere oggi la stessa debolezza». Il fallimento più lampante di una «rescue operation» americana fu quello avvenuto nel deserto iraniano nell’aprile del 1980, quando un incidente fra elicotteri impedì alla Delta Force di tentare la liberazione degli ostaggi detenuti nell’ambasciata a Teheran. Larry Korb, ex vicecapo del Pentagono nell’amministrazione Reagan che si insediò dopo Carter, ricorda quell’episodio come «un evento che può drammaticamente avvenire, perché a ben vedere anche nel blitz di Abbottabad del 2011 in cui abbiamo ucciso Osama Bin Laden abbiamo perso un elicottero», ma la differenza sta «nella gestione dell’imprevisto negativo». «Sta a chi comanda l’operazione apportare in tempo istantaneo i cambiamenti necessari per evitare che al male segua il peggio», osserva Korb, secondo il quale i generali algerini «si sono curati poco delle conseguenze politiche perché, a differenza di quanto avvenne per Jimmy Carter, non devono rispondere ad un’opinione pubblica per gli errori commessi e le vite umane perdute».
Fretta di agire, preparazione carente delle truppe e intelligence insufficiente sono i fattori che Korb, Scheuer e White concordano nel definire «complementari per un fallimento sanguinoso» come quello avvenuto nel tentativo di liberare gli ostaggi nell’impianto petrolifero dell’Algeria meridionale. Ma Scheuer, veterano della guerra clandestina in Medio Oriente, aggiunge un altro dettaglio: «Se guardiamo bene a cosa è avvenuto ad In Amenas, ci accorgiamo che i jihadisti hanno separato i dipendenti algerini da quelli stranieri, di fatto mettendoli al sicuro». Si tratta di un «cambiamento netto nella strategia di Al Qaeda rispetto a quanto faceva in Iraq Abu Musab al Zarqawi, massacrando i musulmani senza alcuna remora», e ciò significa, a suo avviso, che «le cellule jihadiste nel Sahara» hanno «mutato approccio», evitando vittime musulmane «nel tentativo di riguadagnare popolarità» per una guerra finora disseminata di sconfitte.
Maurizio Molinari - " Monaco, Beslan e “DesertOne” quando le teste di cuoio sbagliano "
Le foto delle vittime di Beslan
Fra i più sanguinosi fallimenti di salvataggi di ostaggi c’è quanto avviene il 3 settembre 2004 a Beslan, nell’Ossenzia del Nord, quando le forze russe danno l’assalto al complesso scolastico dove un commando islamico imprigiona 1200 fra bambini, genitori e insegnanti. I 31 terroristi vengono eliminati ma con loro muoiono 186 bambini e i civili feriti sono oltre 400. Due anni prima, nel teatro Dubrovka di Mosca, le forze speciali russe avevano ucciso 130 ostaggi nel blitz - con l’uso dei gas asfissianti - contro il commando ceceno che aveva sequestrato l’intero edificio.
Sono stragi di civili che nascono dalla scelta tattica del massiccio ricorso alla forza, in maniera analoga a quanto fanno le forze di sicurezza egiziane sulla pista dell’aeroporto di Malta il 23 novembre 1985 dando l’assalto all’aereo di linea dirottato da un commando palestinese di Abu Nidal: 58 passeggeri restano senza vita.
Il 6 settembre 1972 a Monaco di Baviera, durante le Olimpiadi, a morire sono 9 atleti israeliani sequestrati da un commando palestinese di Settembre Nero quando la polizia tedesca sbaglia l’intervento per liberarli, consentendo ai cinque feddayn che li tengono in ostaggio di farsi saltare in aria sugli elicotteri in attesa di decollare sulla pista.
Per gli Stati Uniti lo smacco più cocente resta «Desert One»: il fallimento della Delta Force di liberare, il 24 aprile 1980, gli ostaggi detenuti nell’ambasciata americana a Teheran a causa di uno scontro fra elicotteri nel deserto iraniano nel quale muoiono otto militari. Gli ostaggi a Teheran non si accorgono di nulla ma il fallimento ha conseguenze politiche pesanti, segnando la sorte del presidente Jimmy Carter nell’anno della corsa alla rielezione. Per gli italiani il fallimento nella liberazione di ostaggi evoca la drammatica fine di Franco Lamolinara avvenuta lo scorso 12 maggio quando le teste di cuoio della royan Navy britannica lo uccidono - assieme al britannico Christopher McManus - nel blitz contro i sequestratori islamici nigeriani di Boko Haram.
Domenico Quirico - "A Bamako amore-odio per gli ex colonizzatori"
I blindati, con il tricolore in testa, verso il Niger con le sue stoppie, le sue arene, le sua caldure. E a Bamako si combatte la miseria vendendo le bandierine della République! È opera davvero di alta stregoneria questa guerra francese al terrorismo, almeno finora! Non c’è vicolo dove non te la offrano, la bandiera, venditori vengono all’abbordaggio con urla da pirati e con mazzi bianchi rossi e blu estratti con una solennità da gioielli sacri. È il nuovo grande affare dei pezzenti di quaggiù, più delle maglie della nazionale di calcio impegnata nella coppa d’Africa. Dunque: la Francia sfruttatrice e sanguisuga dei cui permanenti «maleficia» è intrisa anche questa emergenza, sembra aver lavato tutti peccati nell’acqua lustrale del fraterno aiuto al Mali invaso da tuareg e terroristi.
All’ufficio dell’immigrazione la Madame, di forme scultoree e gentili, imprime timbri e numeri di registro sulle pratiche e intanto sussurra: «Hollande, io l’amo più dei francesi…». Ancora a dicembre non c’era soggetto in cui il riferimento a Parigi non scatenasse ondate malediche, tutti sanno che è la Francia ad avere appiccicato al Sud, nero e contadino, per scaltri disegni postcoloniali, gli ex predoni tuareg che hanno scatenato questo putiferio.
Ad acquietare ora gli escandescenti è solo la paura dei folli di Dio padroni del Nord, e l’omicida voglia di vendetta che già si respira nelle chiacchiere dell’«adesso viene il nostro turno, quando saremo lì a Gao, a Kidal…». Certi vecchioni omerici che hanno partecipato alle punizioni esemplari delle rivolte tuareg degli Anni 90 e del 2006 ti sussurrano un «viva la Francia» che pare affilato come un coltello e mette i brividi: «Senza di loro gli emiri di Aqmi sarebbero qui, eravamo inermi…».
I Rafale, gli aerei da guerra meno richiesti del mondo, bombardano e, senza contraerea e rischi, dettano infallibili stime obituarie. Mille francesi si fanno onore: ma è bene che arrivino alla svelta, all’aeroporto di Bamako, i contingenti dei «nostri amici in Africa» (sempre quelli, impresentabili, corrotti dinosauri, che ci sia la destra o la Gauche all’Eliseo). La brutalità dell’attacco dei taleban delle sabbie li ha scossi dal prudente letargo. Togolesi e beninois non contano molto, faranno numero, i comandanti li abbiamo visti nell’hotel più chic comprare da un astuto locale le foto ricordo da mandare a casa. Sono in volo, semmai, attesissimi come star, i ciadiani: questi sì guerrieri scaturiti dal deserto come i nemici del Nord, e saranno duemila. Il loro presidente non è proprio immacolato, ma non importa, è la guerra. Bisogna rapidamente africanizzare la lotta al terrorismo, per risparmiare fondi e figuracce. Pensate se i francesi entrassero, bandiere in testa, nelle prossime settimane a Timbuctù, liberata nelle sue muraglie di argilla! Lo diceva un francese che vive a Bamako, gli occhi già lustri di goduria, non un insabbiato nostalgico, un socialista che ha votato Hollande. Ah, il colonialismo francese non fu per caso tutto di gauche.
Si svela, sul campo, una guerra dell’allegro colonialismo d’affari. Una guerra combattuta, sul suolo del Mali, per difendere l’uranio di Areva, nel vicino e minacciato Niger, e per non perder la faccia di fronte a quanto resta della FranceAfrique. Eppure a Bamako, Paese senza Stato, governo ed esercito, uno dei più poveri del mondo, non sono solo bandierine e urrah. Salmeggiano terrori, voci vendette: la gendarmeria dà la caccia ai «wahabiti». Fa paura adesso questa fede gagliarda, in crescita come è tra giovani e plebi disperati, la si accusa di essere la quinta colonna di Aqmi. Anche le notizie della guerra sono più prudenti. Ieri la notizia, vera? falsa? comunque incontrollabile che una colonna jihadista è stata individuata a 140 chilometri dalla capitale, nella foresta di Banamba. E poi c’è Konà, città data per conquistata da giorni e invece ancora ieri ci sventolava una bandiera salafita.
Superata la fase della paura, se la guerra sarà lunga, la gente non sopporterà la presenza delle truppe dell’antico colonizzatore. Comanda, ma non lo si può dire per ipocrisia, un capitan Fracassa, il capitano Sanongo, golpista che si è messo nell’ombra ma prende le decisioni chiave. Nei giorni scorsi ha mandato in strada i suoi sostenitori, non per inneggiare a Hollande, ma per manifestare contro «i politicanti». Per ricordare, lui, la guerra la voleva fare senza questi ingombranti «alleati».
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