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La Stampa Rassegna Stampa
17.01.2013 Siria, reportage tra i jihadisti anti Assad
di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 17 gennaio 2013
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Siria, dove la guerra santa è contro Assad»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/01/2013, a pag. 1-5, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Siria, dove la guerra santa è contro Assad ".


Domenico Quirico          Assad legge: 'U.c.c.i.d.i.l.i.t.u.t.t.i.'

Maarat an-Nouman è un posto dove i morti superano i vivi. Per far spazio ai cimiteri usano le piazze e gli spazi vuoti della città.
La guerra continua e, come una foresta che avanza rapidamente, il cimitero di piccole lapidi rettangolari si fa sempre più grande. I martiri circondano e presidiano Maarat, la loro presenza rappresenta di per sé una perenne chiamata alle armi. In questo contesto di spiritualità così forte, anche nella più ordinaria quotidiana routine della carneficina, con i loro giorni scanditi dalle preghiere, i ribelli del jihad siriano assomigliamo sempre più a una casta semiselvaggia di monaci guerrieri. L’unico peccato che non hanno commesso è la disperazione, il peccato imperdonabile. Per i ribelli ormai la mano di Dio è presente in ogni cosa, visibile in ogni loro azione. È come se grazie alla loro fede essi fossero investiti dalla capacità di vedere oltre la vita e dentro il futuro.

Maarat an-Nouman: sulla grande strada che conduce da Damasco a Aleppo, giù, oltre le rovine di Ebla fin quasi a sfiorare Hama e Apamea. Nella luce livida del mattino ha l’aspetto e il colore mesto di una plaga abbandonata e infeconda. Nessun giornalista occidentale si è spinto fin qui a vedere quella che è davvero la prima linea della nuova guerra siriana. Quando sono arrivato la prima volta in Siria i gruppi islamiciradicalieranoformatidapoche decine di persone: la rivolta era giovane, laica, ragazzi che avevano lasciato le università per imbracciare il fucile e cacciare Bashar l’assassino, o contadini che la miseria trasforma in miti animali feroci. «Al Faouk», per esempio: un brigata islamista di poche decine di persone in un quartiere di Homs. Oggi sono ovunque, presidiano la frontiera di Antiochia con la Turchia, le divise nere con i simboli della brigata, nuove di zecca: pagate con i soldi dei sauditi e degli inviati del Qatar che in Libano comprano, dai mercati russi, le armi per il loro jihad. L’Armata siriana libera quella è ridotta a presidiare le retrovie, i piccoli villaggi tagliati fuori da tutto senza armi senza soldi senza speranza. Pochi mesi fa ancora mi dicevano: «Gli islamisti? Ci aiutano ma poi li manderemo a casa con molti ringraziamenti». Oggi tacciono, imbarazzati, allargano le braccia:«Chepotevamofare?».Larivoluzione che ad Aleppo sta seccando, in altri luoghi è già islamizzata. Non era un destino. Siamo noi, Occidente, negando ogni aiuto, con la nostra prudenza scrofolosa, che l’abbiamo consegnata all’Islam radicale. Tra qualche mese, forse,nonsaràpiùpossibilevenirequi.I giovani jhaidisti non ci vogliono, noi gli infedeli, gli empi, ci detestano quanto Assad e la sua sbirraglia.

Maaratan-Noumannonèpiùunluogo come gli altri e i suoi abitanti non sono eguali agli altri, è un mosaico di storie e di eventi intrecciati tra loro, e fa parte della epopea islamista. Qui è il cuore della Siria, in questi spazi vuoti che recano i segni del delitto e della rappresaglia,nellecentinaiadipiccoletombe frettolose su cui il cannone empiamente non risparmia unghiate di ferro. Via via che avanziamo, dopo la fortezza araba che un tempo era un museo e ora è il comando ribelle, verso la prima linea, tutto diventa più deserto, stranamente silenzioso, malgrado i continui rombi delle esplosioni, e come morto. Gli alberi la terra il cielo i sassi le case non hanno più alcun colore, tutto è un grigiore, una lividezza funerea, quasi che la natura avesse perso ogni suo chiaro attributo, si fosse irrigidita in una specie di spettralità sepolcrale e astratta. In un magazzino ci uniamo a un gruppo di uomini di Al Nusra, brigata islamista. Li comanda un ragazzo, impeccabile, perfino azzimato, nella sua jellaba nera: due granate spuntano dalle tasche, nella destra un mitra e nella sinistra il corano. La voce è mite e risoluta, inflessibilmente dolce. È molto giovane e a quella età molte cose non si temono:l’etàelamorte,lavitanonl’aveva ancora afferrato, ma era già stata ridotta ai minimi termini, c’era tutto ma in linee sottilissime. Prima di avvicinarsiluieisuoicompagnisiavvolgonoilcapo nel turbante nero: ci concedono di sé solo il lampo degli occhi. È sempre così: non è ancora ostilità ma già una forma di circospezione, parole pronunciate a bassa voce. Noi siamo davvero stranieri qui.

Ma che ragazzi sono questi jihaidisti? Non si curano affatto della morte, invece di andare al riparo vanno a guardare i mig con la stessa tranquillità con cui potrebbero osservare uno stormo di migratori. È come se le bombe e le pallottole fossero mere astrazioni, sembra che per molti l’importante sia combattere più che vincere. In una guerra santa la morte diventa un combustibile, un mezzo per un fine in sé. Sbuffi di fumo e polvere si alzano dalle rovine della città simili a vortici di sabbia sollevati da venti anomali. Una casetta lungo il pendio di fronte si dilata,siallargaescompareinunaesplosione gigantesca, volando in pezzi. Il terreno è come butterato a causa dei grossi calibri, come se ne avessero strappato pezzi a morsi. «Sono i T72» mi dice un guerrigliero, i carri russi del regime. Maarat è come Aleppo, come cento città e villaggi siriani: in rovina, le cupole e i tetti rotti come gusci. La sommità dei muri squassati cedono sotto i sussulti delle bombe. Inesorabilmente Maarat sta tornando alla terra. Presto non resterà che un torso di terra collinoso dove crescerà il nulla.

I ribelli di Al Nusra, incitati dal comandante assillati dalla minaccia del cannone, esaltati dal desiderio di arrivare in prima linea, avanzano, in salita, tra le rovine e le balze: un incalzare affannato,unbalzareprecipitoso,unalzarsieabbassarsi simultaneo di schiene curve, un brulicare di gambe in corsa, di braccia in moto, di mitra branditi. Vanno via sereni, la loro fede in Dio li porta a vivere nella attesa di miracoli. Sono guerrieri santi, combattono la guerra di Dio e i miracoli sono destinati ad accadere. E poi qui tutto finisce così presto, una raffica, una bomba e in due minuti la vita è spenta. E lochiamanomartirio.Sulmarginediuna casa, nel mirino dei cecchini, tre cadaveri tumefatti lividi, i visi abbruciacchiati, senza più nulla di umano sembrano tre mucchi di cenci, di spazzatura attorno a cui ronzano le mosche.

La prima linea è un gruppo di case, i soldati di Assad si sono appena ritirati, le stanze sono ancora calde del loro odore, della loro presenza, dei colpi che hanno sparato. Su una scala hanno dimenticato una mazza con cui sfondavano le pareti e creavano i passaggi per i tiratori scelti. Prima di fuggire hanno sfasciato metodicamente tutto, i mobili la cucina le porte i lampadari. In una stanza resta solo una piccola altalena di un bimbo. Su una parete hanno scritto: «o obbedite ad Assad o distruggeremo la Siria». Ora sono a settanta, cento metri davanti a noi, in una grande edificio grigio, dove hanno sistemato i loro cecchini che tirano con abbai rabbiosi e violenti non appena scorgonoun’ombranellenostrecase.Hopaura, questo è un posto dove i minuti si dilatano in anni, dove ci sentiamo sfiorare dal freddo del nostro nulla... I ragazzi adesso tirano a raffiche lunghe, furiose, quasi senza prendere la mira, la casa dove sono asserragliati i soldati muore sotto i loro colpi, sussulta, cumuli di polvere escono dalla pareti e la terra ribolle intorno, sollevando zolle.

Ci sono paesaggi interiori percepiti solo da loro, solo loro sanno quali eventi drammatici, alcuni terribili altri sublimi, si sono verificati in questo groviglio di cemento fatto a pezzi che chiamano città. Qui una battaglia, lì un eroe è morto, un cecchino gli ha piazzato un proiettile nella tempia, quella che chiamano «rosetta» perché il cervello si apre come una rosa e non si può più metterlo insieme; laggiù una imboscata a una squadra nemica; quella è la prigione dove prima di ritirarsi gli shabiha del regime hanno ammazzato tutti i prigionieri; e macerie dove una moschea accoglieva i fedeli nella preghiera; e i morti che giacciano sotto, non visti. Questo paesaggio interiore della guerra, che appartiene solo a loro, continuerà a esistere fino a quando ci saranno i ribelli, a ricordare e a raccontare cosa accadde. E alla fine quelle storie diventeranno miti.

Questa è la Siria che noi abbiamo voluto, ignorandola, un luogo che esiste in un istante di violenza che va al di là di ogni immaginazione, che esiste negli ululati delle donne e dei bimbi impazziti dal terrore, nelle invocazioni dei combattenti, nelle esecuzioni spietate, negli eroismi e negli errori fatali. E il suo volto è a volte bellissimo e a volte terribile.

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