Il commento di Yasha Reibman
Yasha Reibman, psichiatra, già portavoce della Comunità ebraica di Milano
Da un viaggio in Israele in questi giorni, leggendo i manifesti elettorali per le strade, guardando le pubblicità in televisione, si può trarre una semplice conclusione. Le elezioni sembrano avviarsi a essere un referendum su Netanyahu. La strategia del leader del Likud e dei diversi partiti della sinistra convergono su questo. E’ Bibi l’uomo forte di Israele, da appoggiare o da contrastare. Consapevole di tali condizioni, Avigdor Liberman - Ministro degli Esteri uscente, leader di Israel Beitenu, indagato e sotto processo – ha strappato un accordo elettorale con il Likud e i due partiti si presenteranno uniti. In questo modo Liberman eviterà perdere voti e riuscirà a salvare quasi tutti i propri deputati. A uno sguardo più approfondito le elezioni riguarderanno altri tre temi.
1. il conflitto arabo israeliano. Sebbene questo sia il tema più scottante, quello più seguito all’estero e fonte di maggior apprensione, è paradossalmente quello di cui meno parlano i manifesti elettorali per le strade. Il pericolo rappresentato dall’Iran non è in discussione. La parola ‘pace – shalom’ è non pervenuta e sui maxi poster praticamente non c’è. La contrapposizione tra chi sia disposto allo scambio terra in cambio di pace, centrale nel dibattito degli anni ’80 e dei primi anni ’90, è oramai praticamente scomparsa. Nonostante l’apparente rifiuto di ogni compromesso caratterizzi una delle sorprese di questa campagna - Beit HaYehudi di Naftali Bennet otterrà infatti molti seggi (ma persino il 32% del suo elettorato è favorevole a un compromesso territoriale) - la grande maggioranza degli israeliani e dei membri della Knesset appoggerebbe comunque un eventuale accordo con i palestinesi;
2. l’argomento più trattato dai partiti è l’economia. Sebbene Israele sia una “start up nation” e la new economy dia un contributo di 5,5 miliardi di dollari al PIL israeliano, anche lo Stato ebraico conosce la crisi. I poveri nelle strade sono più di un tempo. L’accusa dei laburisti, il più grande partito della sinistra israeliana, è racchiuso nello slogan che compare negli striscioni alle finestre delle case: “Bibi (Netanyahu) va bene per i ricchi - Shelly (Yacimovich) va bene per te”. L’attenzione ai poveri è centrale anche per Shas, il principale partito religioso;
3. il conflitto tra laici e religiosi pervade la società israeliana. Non sono pochi i laici, soprattutto a Tel Aviv, che restano sconvolti quando incontrano qualcuno che non abbia l’aspetto del religioso, ma che dichiari di mangiare kasher. Come è noto, molti israeliani provano risentimento nei confronti di quei religiosi che riescono a evitare il servizio militare e al contempo ottengono grandi aiuti economici per potersi dedicare allo studio della Torah. Rispetto ad alcuni anni fa, quando Tommy Lapid ottenne su questo un rapido successo elettorale, manca un partito che abbia messo al centro della propria iniziativa politica la laicità dello Stato e la contrapposizione con i religiosi. I laburisti temono di perdere una parte del proprio elettorato, la sinistra di Meretz è più concentrata questa volta nella contrapposizione con Netanyahu. A raccogliere apparentemente il testimone è Kadima (alle scorse elezioni il partito più forte, oggi a malapena riuscirà a rientrare nella Knesset), ma più per difendere i soldati, sottopagati rispetto ai finanziamenti dati ai religiosi. Lo scontro più acceso e potenzialmente con grandi conseguenze sembra all’interno del campo religioso. Dal partito Shas si è staccato Amsalem, che mette al centro del proprio programma il servizio militare per tutti e un ebraismo ‘privo di estremismi’.
Se questi sono i punti su cui i partiti si dividono maggiormente, le elezioni potrebbero dare una iniziale risposta ad alcuni temi aperti, ne sottolineo due.
A. La destra israeliana viene da un ciclo di vittorie, figlie della sconfitta epocale della sinistra. La sinistra israeliana, a differenza di quella europea continentale (e soprattutto di quella italiana), non è rimasta travolta dal crollo del muro di Berlino, ma ha ugualmente visto cadere il proprio caposaldo ideologico, la possibilità di raggiungere in breve tempo un accordo di pace duraturo con il mondo arabo a cominciare dalla soluzione del problema palestinese. L’assioma ‘terra in cambio di pace’ è stato rifiutato da Yasser Arafat a Camp David e poi sepolto dai kamikaze. La domanda è dunque se, a cominciare dalle questioni economiche e non solo dalla contrapposizione a Bibi Netanyahu, la sinistra riuscirà a rinascere. E’ questa la scommessa della capolista laburista Shelly Yacimovich.
B. rispetto al 1948 Israele non è più un paese grosso modo omogeneo (nel ’48 la leadership laica askenazita aveva comunque studiato nelle stesse scuole dei leader religiosi e c’era un linguaggio comune), ma sempre più diviso tra gruppi con differenti origini etniche, ideologiche, religiose. Da anni si discute se la legge elettorale sia ancora in grado di dare una governabilità al Paese e si è tentato di introdurre timidi cambiamenti (lo sbarramento al 2%, l’elezione diretta del primo ministro dal 1996 poi abrogata nel 2001). In queste elezioni si presenteranno ben 34 liste. Il tentativo di unire i partiti di centro sinistra in una grande coalizione anti Netanyahu non ha avuto successo. In prospettiva potrebbe riaprirsi il dibattito su una riforma radicale della legge elettorale, in stile americano, in modo di ottenere solo 2 o 3 partiti.