nel grande carnaio della Siria si consumano mille drammi, anzi forse sessantamila, quanti sono stati finora secondo l'Onu i morti di quell'orribile guerra civile: ben più di tutti i morti, civili e militari, di tutte le parti di sessant'anni di guerra portati dal mondo arabo a Israele. Vi è il dramma di Aleppo, una delle città più antiche e belle, ormai ridotta in rovine, il dramma dei cristiani, quello dei drusi, quello dei curdi, perfino quello degli alawiti cui appartiene il clan che ha dominato sanguinosamente il paese negli ultimi quarant'anni, ma non sono tutti colpevoli di questo. Vi è il dramma di un patrimonio storico-archeologico unico al mondo, in via di distruzione, quello dei bambini bombardati a scuola, quello delle code per il pane, spesso bombardate anch'esse. Vi è soprattutto il dramma di una conquista violenta del potere da parte degli islamisti più feroci, che ha rimpiazzato il movimento democratico iniziale, se mai esso è esistito davvero nel senso nostro di democrazia: una spinta che ha determinato la sorte della cosiddetta primavera araba dovunque e che condizionerà le sorti del mondo arabo e del Mediterraneo, dunque anche le nostre per decenni. Vi è l'incapacità del mondo arabo, anzi forse in genere dei musulmani, di vivere in pace, la pulsione irresistibile alla guerra civile (o ai regimi duri che ne escono) che ha segnato tutta la loro storia. Negli scorsi decenni queste guerre erano solo ai margini dell'Islam, in Cecenia e Bosnia, in Cina e Pakistan, nell'Africa subsahariana e in Israele; oggi esse investono il cuore di quel mondo, i paesi arabi. Prova, semmai ce ne fosse bisogno, che il cuore dell'instabilità del Medio Oriente non è l'esistenza di Israele, come dicono gli antisemiti,a determinare l'instabilità della regione, ma l'incapacità della cultura islamica di adeguarsi alla modernità e alla pace. E infine vi è il nostro dramma, la nostra passività , o meglio la passività dei "pacifisti", inclusi i politici, le organizzazioni internazionali, gli ecclesiastici, che considerano molto più scandaloso costruire una casa nei sobborghi di Gerusalemme che la morte violenta e programmata di cento, mille, diecimila poveracci cinquecento chilometri più a Nord.
Ma io voglio parlarvi di un altro dramma, quello dei rifugiati palestinesi, che sono diverse decine di migliaia nei campi siriani, famiglie conservate lì accuratamente come arma contro Israele per sessant'anni, senza che mai fosse consentito loro di integrarsi nella popolazione, che pure parla la stessa lingua, ha la stessa origine, appartiene alla stessa etnia: fino a cinquant'anni fa gli attuali "palestinesi" si definivano semplicemente siriani abitanti nelle regioni meridionali della grande Siria. Bene, questi "rifugiati" o piuttosto prigionieri sono diventati, da ostaggio della politica araba antisraeliana, anche obiettivi di guerra. Hanno milizie, si sono addestrati, i loro movimenti politici (o piuttosto terroristici, ma non insisto qui) si sono divisi fra pro-Assad (per esempio il FLP) e contro (per esempio Hamas, che pure fino a tre anni fa aveva la base a Damasco). Dunque sono nemici di tutti e tutti li bombardano, li assalgono, li ammazzano. Ne sono morti finora forse un paio di migliaia, ben più della loro percentuale della popolazione. Inevitabile che cerchino di fuggire, non avendo speciali legami di appartenenza coi posti dove vivono. Scappano all'estero i siriani "normali" a centinaia di migliaia, inevitabile che fuggano anche loro. Buona parte, per ragioni geografiche e politiche, ha cercato di rifugiarsi in Giordania. La quale, bisogna dire, ha accolto moltissimi profughi.
Ma ufficialmente la ragione è diversa. La Giordania non accoglie i rifugiati palestinesi per non creare un precedente. Israele potrebbe decidere di fare pulizia etnica, dicono, forse pensando alla pulizia etnica vera che fece la Giordania quando fu padrona di Giudea e Samaria fra il '49 e il '67, espellendo ogni singolo ebreo da Gerusalemme, Hebron e da tutti i villaggi che poi dopo il '67 sono tornati a vivere e che oggi chiamano "colonie". In questo caso potrebbe cercare di deportarli in Giordania, invocando il precedente siriano. Dunque, questo precedente non deve esserci, e non devono esserci riufugiati palestinesi in Giordania provenienti dalla Siria. Che si impicchino, o che si facciano pure bombardare, ma non possono uscire dal ruolo di ostaggi contro la pace e la "normalizzazione" cui gli stati arabi li hanno destinati da sessant'anni. (http://elderofziyon.blogspot.it/2013/01/jordan-tells-syrian-palestinians-to.html).
Mahmoud Abbas (Abu Mazen)
Voi direte: e l'Anp? Le organizzazioni palestinesi? Al Fatah? Non protestano per questa condanna a morte dei loro fratelli? Non li rappresentano? Non li difendono? Non chiedono che sia salva almeno la loro vita, il più elementare di tutti i diritti? Non hanno pietà dei loro bambini e delle loro donne? Niente affatto. Mahammed Abbas, così sollecito a presentasi come il buon nonno di tutti i palestinesi, ha fatto l'altro giorno un bel discorso (http://elderofziyon.blogspot.co.uk/2013/01/abbas-makes-it-clear-destroying-israel.html?), spiegando che la distruzione di Israele è più importante della vita e che quindi i poveri palestinesi/siriani devono rassegnarsi a crepare piuttosto che poter fornire l'ombra di un pretesto al nemico. Il sottinteso era: imparino dagli attentatori suicidi, che usano la loro vita come un'arma. Muoiano quindi per non diventare un precedente per un evento per peraltro non è assolutamente possibile. O meglio, muoiano per evitare di rafforzare la maggioranza palestinese in Giordania e indispettire il re. Muoiano comunque e non rompano le scatole. Sono spazzatura umana, si lascino buttare nel cestino. Questa è la stima che, sotto mille espressioni retoriche, la dirigenza palestinese ha del suo preteso popolo.