Riprendiamo oggi, 13/01/2013, a pag.35, del Supplemento DOMENICA da COLLEZIONE del SOLE24ORE, la recensione di Giulio Busi al libro di Uri Orlev "Poesie scritte a tredici anni a Bergen Belsen", a cura di Sara Ferrari, pubblicato dall'editore Giuntina.
la copertina Uri Orlev Giulio Busi
C'è una memoria che vive nell'eccesso. Accumula dati, prove, racconti. Va nei dettagli, discute, esemplifica, confronta. Qualche volta, la memoria esuberante serve a ricordare meglio, spesso finisce per seppellire il passato sotto un rumore assordante e inutile. Ma c'è anche un ricordo sobrio, fatto di sottrazioni, che rinuncia a quasi tutto e si concentra su pochissimi fatti. Sui due, tre grandi dolori che bastano a saturare una vita, e su altrettante gioie, le sole che, quando vengono – se vengono – la illuminano davvero, una vita.
La memoria della Shoah è un ingranaggio smisurato, che macina senza posa i materiali più disparati. Al silenzio del secondo dopoguerra – lungo, imbarazzato, spettrale – è subentrato negli ultimi anni un proliferare inarrestabile di documenti, libri, immagini, anamnesi più o meno genuine. E se sappiamo sempre di più su quanto è successo, e sui modi e i tempi della persecuzione, non sempre sappiamo meglio. La Shoah è intrisa di assenza e oscurità, e ha un nucleo irriducibile di vuoto. Che si capisce solo togliendo e non continuando nervosamente ad aggiungere, in modo compulsivo.
Una prova convincente di questa via per difetto la può dare un poeta un po' impacciato e insicuro di sé. Non perché sia incapace, anzi. Le liriche di Uri Orlev procedono con cautela per ragioni biografiche. Scritte in ebraico, a tredici anni, di nascosto, in un lager. Sarà perché la carta era pochissima, le rime difficili da trovare, e il vitto sempre più scarso. Fatto è che ai versi un po' pericolanti di Orlev riesce, con quasi niente, quello che sfugge a tanta memorialistica piena d'ambizioni. Il dono di dire quanto basta, e neanche una frase di troppo. «Prima il coltello lasciò un graffio soltanto, / poi si conficcò di schianto / e trafisse, scavò, squarciò». È sufficiente una lama sola, e una sola ferita. Gli aggettivi non sanno curarla, il ricordo non riesce a lenirla, gli anni non la cancellano e, quasi, non l'addolciscono neppure. La cicatrice di parole, intatta, netta, vale molto. Per trovarla, bisogna portare a nudo la pelle, e aguzzare gli occhi, in silenzio. Finalmente.
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