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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Christian Ingrao, Credere, distruggere 07/01/2013

Credere, distruggere                                  Christian Ingrao
Traduzione di F. Leva e M. Marchetti
Einaudi                                                              euro 34

Credere, distruggere di Christian Ingrao (Einaudi, 405 pagine, 34 euro) ha per sottotitolo «Gli intellettuali delle SS». Racconta come giuristi, economisti, filosofi, linguisti e storici che ne fecero parte teorizzarono una coscienza e superiorità di razza che, una volta calata nel crogiolo della Seconda guerra mondiale, si fuse nell'Est Europa nella pianificazione di una distruzione di massa nei confronti di chi, essendo “inferiore”, poteva e doveva essere eliminato.
Nato come tesi di dottorato, il saggio di Ingrao, attualmente direttore dell'«Institut d'Histoire du Temps Présent» di Parigi, ricostruisce in primis il retaggio della sconfitta tedesca nella Grande guerra in chi, per età, non aveva fatto a tempo a parteciparvi; analizza poi la militanza culturale nazista come reazione a questo vissuto; affronta infine «le pratiche genocidiarie delle Einsatzgruppen sul fronte orientale e nella partecipazione alle politiche di germanizzazione e di trasferimento di popolazioni, anch'esse innervate da tensioni utopiche e omicide».
In pratica, come sottolinea l'autore, Credere, distruggere è, a livello storiografico, la replica tematica di ciò che, a livello narrativo, è stato il romanzo Le Benevole di Jonathan Littell, uscito a cavallo fra la discussione universitaria di quella tesi e la sua successiva trasformazione in volume.
In Credere, distruggere, molta importanza viene data al «silenzio degli Akademiker», ovvero il tabù della Grande guerra, indice per Ingrao non di una tabula rasa, di un'insignificanza, ma di un trauma. Lo stesso discorso vale, ancora con più forza, per «l'assenza universale di evocazione della sconfitta tedesca del 1918». In sostanza, l'impossibilità di rievocare quell'esperienza vissuta in età infantile e/o adolescenziale, è da legarsi al «coagularsi di una credenza nella scomparsa - a scadenza più o meno breve - della Germania statuale, certamente, ma anche biologica». Ciò che non viene nominato, insomma, è dovuto da un lato al suo essere inconcepibile, e dall'altro rimanda a un angoscia apocalittica per ciò che potrebbe accadere. Viene anche da qui, secondo Ingrao, l'idea di vivere assediati «da un mondo di nemici» e, attraverso il nazismo, il transfert di una rivincita anche ideale, il sogno di un invincibile «Grande Reich millenario». È una ricostruzione per molti aspetti condivisibile, a cui però manca il tassello, come dire, politico. Come e perché quelle frustrazioni di un ceto intellettuale colto, ben educato, si trasformano in una realtà di massa, in un partito di massa che arriva al potere attraverso libere elezioni? Senza soffermarvisi, Ingrao riporta in proposito una frase di Ernst von Salomon su cui vale invece la pena riflettere: «Fu allora che divenne chiaro in tutte le discussioni che c'era qualcuno, un ospite muto, ma del tutto visibile e che tuttavia dominava la discussione, perché proponeva i temi, descriveva i metodi, determinava le azioni. E quell'ospite muto si chiamava Adolf Hitler».
Von Salomon non era uno scrittore qualunque. Nato nel 1902, neppure lui aveva fatto a tempo a partecipare alla guerra, ma in realtà, dopo il 1918, c'era stato il «tempo dei disordini», i «corpi franchi» impegnati a difendere i confini di quello che era stato l'impero del Kaiser e contemporaneamente a lottare contro il bolscevismo interno, la resistenza contro l'occupazione alleata e lo scontento legato alle clausole del trattato di Versailles che praticamente strangolavano la Germania. A nemmeno vent'anni, von Salomon aveva fatto parte della squadra che aveva assassinato Walter Rathenau, il politico che incarnava ai loro occhi la resa tedesca, e dopo la prigionia aveva continuato un'attività di sovversione intellettuale nei confronti dell'odiata Repubblica di Weimar. I giornali e le riviste dell'epoca si chiamavano La Resistenza, l'Avanzata, l'Azione, il Fronte Germanico, proliferavano le leghe e le associazioni di ex combattenti, il cemento rappresentato dalla Grande guerra prima, dal già citato «tempo dei disordini» dopo, si trasformava in un muro eretto contro il neonato Stato tedesco a cui non veniva riconosciuta alcuna legittimità. Il «silenzio» da parte dei più giovani di cui parla Ingrao, e il loro rifiuto di «evocare la sconfitta» si univano insomma al reducismo vociante e bellicoso dei fratelli maggiori per i quali l'esercito, per quanto umiliato dalle draconiane imposizioni dei vincitori, rimaneva l'unico vero legame con la grandezza passata.
All'interno di tale situazione, dove il disprezzo per Weimar si univa però a una condizione di «sorvegliato speciale» che impediva alla Germania una realistica scappatoia militar-golpista, Hitler, dopo l'errore iniziale del mancato putsch di Monaco, si inserì con una strategia di conquista legale del potere, dall'interno dunque, dalle istituzioni, dal basso e non dall'alto, e coagulò istanze di rivincita, nostalgie di ciò che era stato, insicurezze economiche del presente, in un blocco popolare in grado di sublimarle e armonizzarle.
Come scriverà von Salomon, che al partito nazista non aveva aderito e che del razzismo non aveva mai voluto saperne («Ho consultato l'enciclopedia. Ariano è un ceppo linguistico. Sono forse un vocabolo?»), il problema era che quelli come lui avevano scritto «una volta della fede nel nostro popolo, del suo grande compito storico; avevo parlato una volta dei nostri sogni supremi, dell'immane e supremo fine per raggiungere il quale ci eravamo mossi; avevo una volta, e per questo i miei camerati erano morti, per questo ci eravamo lasciati trascinare attraverso i penitenziari, avevo una volta coniato il detto che il nostro fine supremo, la nostra più intima fede era la vittoria della germanicità sulla terra!». Nell'incarnare il destino tedesco, di fatto Hitler diveniva per von Salomon, anche contro lo stesso von Salomon, una fatalità a cui era impossibile sottrarsi.
L'inabissarsi di von Salomon in colpe non sue, il suo essere comunque partecipe di «un destino tedesco», ha nel saggio di Ingrao un contraltare nel generale Otto Ohlendorf, responsabile del Servizio di sicurezza (SD) della Germania nazista, «uno dei rappresentanti più vicini a Himmler e, allo stesso tempo, uno dei membri eminenti della burocrazia ministeriale», responsabile dei massacri di massa nell'Europa dell'Est. Nel 1948 a Norimberga, Ohlendorf prova a giustificare il proprio operato, anche se così facendo sa di condannarsi di fronte al tribunale alleato, e lo fa in un'ottica tedesca dalle quale è estraneo ciò che intanto è accaduto, ovvero la rinascita politica della Germania, una Germania senza esercito, renana e federale, rivolta a Occidente... Parla ancora come se si fosse nel 1918, come se il sistema di credenze naziste avesse ancora senso e, al di fuori di esso, non ci fosse altro che «carestia, rivoluzione e derelizione nazionale». E invece la Germania è sopravvissuta al «destino tedesco» che qualcuno aveva deciso di incarnare in suo nome, e non è un caso che di fronte a un Ohlendorf che prova a spiegarlo e a un von Salomon che se ne assume le colpe, Hitler avesse già scelto di sigillarlo con un reciproco patto di morte.

Stenio Solinas
Il Giornale


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