Contatti fra Israele e i ribelli siriani Perché la Siria non assomiglia alla Libia. Analisi di Daniele Raineri, redazione del Foglio
Testata: Il Foglio Data: 04 gennaio 2013 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri - Redazione del Foglio Titolo: «Israele incontra i ribelli siriani per preparare un intervento nel Golan - Tra Aleppo e Bengasi»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 04/01/2013, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Israele incontra i ribelli siriani per preparare un intervento nel Golan ", a pag. 1-4, l'articolo dal titolo " Tra Aleppo e Bengasi ". Ecco i pezzi:
Daniele Raineri - "Israele incontra i ribelli siriani per preparare un intervento nel Golan"
Daniele Raineri Alture del Golan
Roma. Il giornale arabo al Quds al Arabi scrive che c’è stato un incontro tra militari israeliani e ribelli siriani in campo neutro, ad Amman, capitale della Giordania, “per preparare un’eventuale operazione israeloamericana e mettere in sicurezza le alture del Golan”. L’altopiano del Golan è un’area di confine contesa da Siria e Israele fin dalla Guerra dei sei giorni del 1967. Particolare che aggiunge verosimiglianza alla notizia: gli israeliani hanno subito chiesto ai ribelli siriani un aiuto per recuperare le spoglie di Eli Cohen, la cui esecuzione a Damasco fu uno dei capitoli più disperati nella storia dello spionaggio di Israele. Cohen, abilissimo infiltrato del Mossad, riuscì a diventare viceministro della Difesa siriana prima di essere scoperto da agenti russi (già allora collaboravano con Damasco) mentre passava informazioni via radio e finì per essere impiccato durante una diretta della tv di stato siriana nel 1965. La restituzione delle sue spoglie a Israele è un tema simbolico ancora vivissimo. Quando nel 2010 il penultimo capo del Mossad, Meir Dagan, lasciò il suo incarico disse che il suo più grande rimpianto era di non essere riuscito a ottenere indietro i resti di Cohen dal presidente siriano Bashar el Assad. La notizia dell’incontro con gli israeliani può danneggiare l’immagine dei ribelli coinvolti – perché i siriani guardano con ostilità a Israele e lo accusano con vaghezza di appoggiare con armi e materiali il regime di Assad (che rivolta la frittata senza battere ciglio e sostiene che i ribelli sono “terroristi armati da Israele e dall’America”) ma farà di certo sobbalzare parecchia gente sulla sedia. La guerra civile siriana avrà conseguenze che toccheranno Israele, che però per adesso sembrava avere scelto il ruolo dello spettatore silenzioso (tranne un’offerta di “aiuto umanitario” ai ribelli fatta a luglio e respinta sdegnosamente). In realtà il governo di Gerusalemme si sta muovendo: a fine dicembre il giornale arabo al Quds al Arabi ha scritto (sempre lui, poi però sono arrivate le conferme dei media israeliani: per questo ora la notizia dell’abboccamento con i ribelli è considerata credibile) che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incontrato durante una visita segreta re Abdullah II di Giordania, per chiedere il suo assenso a un’operazione dentro la Siria contro le armi chimiche del governo. Netanyahu è consapevole che la Siria considererebbe la Giordania complice di ogni possibile intervento. Due le opzioni presentate ai giordani: uno strike aereo preventivo contro i siti o un’azione di terra con 8.000 soldati, entrambe però respinte. Il 3 dicembre la rivista americana Atlantic Monthly ha raccontato che militari israeliani sono stati ad Amman in ottobre e in novembre con le stesse richieste ai giordani (sempre rifiutate) e che Israele sorveglia il confine siriano con i droni. Martedì è arrivata la notizia della costruzione di una barriera protettiva lunga 56 km sul Golan, confine che un tempo Israele non considerava pericoloso. Dall’altra parte, la maggior parte del territorio è ormai in mano ai ribelli, come ha detto a luglio l’ex ministro della Difesa israeliano Ehud Barak. Nota en passant: il capo di al Qaida in Siria si chiama “al Golani”, perché viene dal Golan.
Redazione del Foglio - " Tra Aleppo e Bengasi "
Bashar al Assad con Gheddafi (foto di archivio)
Roma. Aleppo, città raffinata ed eterna dell’haleeb, che in arabo è il latte, come quello che il profeta Abramo offrì riconoscente alla sua popolazione, o forse la città del colore bianco, dall’aramaico halaba, sempre per la storia del latte di Abramo, è ormai un paesaggio devastato di macerie. Nell’estate del 2001 in Siria c’erano mille morti al mese, ora sono cinquemila. Le Nazioni Unite hanno rivisto verso l’alto la stima totale degli ammazzati fatta dai ribelli in questi 22 mesi di rivoluzione-guerra civile (eppure avevano tutto l’interesse a gonfiarla): non sono 45 mila, sono 60 mila. Vuol dire che nella guerra tra siriani sono morti più arabi che in tutti i conflitti tra stati arabi e Israele dal 1948 a oggi messi assieme. Come sempre succede si cerca all’esterno un responsabile: perché l’occidente/ l’America/l’Europa/la Nato non intervengono e non intraprendono contro il presidente Bashar el Assad un’operazione militare come quella che in Libia ha sconfitto Gheddafi? Perché Bengasi è stata salvata dalle colonne di corazzati mandate da Tripoli a soffocare la rivolta nella culla e invece Aleppo e i suoi abitanti sono stati abbandonati a sei mesi di guerriglia urbana brutale (che peraltro non ha ancora modificato lo stallo militare: il 40 per cento della mappa cittadina resta in mano al governo, ma Aleppo brucia e si sbriciola giorno dopo giorno, come una nuova Stalingrado)? Gli analisti sono spaccati su due posizioni. C’è chi definisce l’inerzia sulla crisi siriana il peggior errore del presidente Obama (qui partono i battimani dei philosophes che amano il riverbero dell’intervento bellico a scopo umanitario sulla fronte, sui capelli, sulla camicia). C’è invece chi fa il conto di tutti i fattori possibili in caso di intervento militare dell’occidente dentro la Siria. C’è la possibile rappresaglia: Hezbollah può scatenare una guerra dal Libano anche contro Israele e l’Iran può aggiungersi. C’è l’ostilità politica di Russia e Cina. C’è il rischio – anzi, la certezza – che in mezzo ai ribelli in lotta contro il governo di Assad ci siano anche estremisti legati ad al Qaida, e allora perché aiutarli? La dottrina di fatto sulla Siria per ora sembra questa, e spiega la differenza con quanto è successo in Libia: si interviene quando si può e quando lo scopo dell’intervento è conforme agli obiettivi dell’occidente, non sotto la spinta di un impulso astratto verso la giustizia o perché si sente la responsabilità vincolante sempre e comunque di proteggere i civili. In Siria non si può – perché c’è il rischio di scatenare un conflitto internazionale e di aggravare la situazione – ma è stata messa comunque una “linea rossa”: se nella guerra civile il governo usa contro i suoi avversari le sue armi di distruzione di massa (in questo caso chimiche), Washington ha promesso di intervenire, perché il rischio di un allargamento della guerra sarebbe comunque un’ipotesi meno spaventosa delle stragi di civili. Assad è riuscito ad arrestare l’impeto di una rivoluzione coraggiosa e a trasformarlo in uno stallo lento e violento. Questa strategia gli ha allungato la vita, ma non durerà per sempre. La guerra civile si avvicina a Damasco e, se il presidente non cederà, alla capitale toccherà la stessa sorte di Aleppo.
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