Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/01/2013, a pag. 3, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Il soldato Bennett mette la kippah alle elezioni in Israele".
Giulio Meotti Naftali Bennett
Roma. Nella campagna elettorale d’Israele, avviato alle urne il prossimo 22 gennaio, si rincorre una sola domanda: “Quanto di destra sarà il prossimo governo di Benjamin Netanyahu?”. Il premier è in grave crisi, ma i tanti voti che sta perdendo aumentano ancora di più lo spazio ai falchi a destra del suo Likud-Israel Beitenu. L’astro di queste elezioni si chiama Naftali Bennett, il leader di HaBayit HaYehudi (Focolare ebraico), il vecchio partito nazional-religioso coalizzato con altre forze di destra. In appena tre settimane Bennett ha risucchiato a Netanyahu sette seggi e ha consolidato, nei sondaggi, la sua posizione di terza forza (quindici seggi) alla Knesset. Non era mai successo nella storia israeliana. E per tamponare la perdita, Netanyahu deve concedere ai coloni. Da qui la lite fra il governo e i suoi ambasciatori, compreso quello a Washington, Ron Prosor, che ha criticato il premier per la tempistica di costruzione nella zona “E1” come ritorsione al voto con cui l’Onu ha riconosciuto lo “stato palestinese” in fieri. Contemporaneamente Netanyahu ha lanciato una guerra contro Bennett, suo ex delfino e braccio destro. Nei giorni scorsi ambienti ufficiosi del Likud hanno promosso una campagna contro il “ghetto” che Bennett intende costruire in Israele. E prima ancora era stata una frase del rivale, ex soldato pluridecorato dei corpi speciali, secondo cui in quanto militare avrebbe problemi di coscienza a evacuare un villaggio di coloni. Il team di Netanyahu ha accusato Bennett di “insubordinazione” e ha riferito che per gente come lui non c’è posto nel governo. In difesa di Bennett sono intervenuti sessanta ufficiali che hanno servito nella stessa unità speciale: “Noi, soldati dei corpi d’élite, difendiamo il nostro comandante”. Il secondo canale televisivo ha appena diffuso un sondaggio secondo cui Bennett è “il politico più popolare nei licei e fra i giovani sotto i trent’anni”. Un successo dovuto alla ferma opposizione di Bennett a uno stato palestinese, ma formulata con un linguaggio pragmatico: non il diritto divino alla terra biblica, ma l’annessione delle comunità ebraiche costruite nei territori dopo la Guerra dei sei giorni. Secondo lo storico militare israeliano Aryeh Yitzhaki, l’attacco di Netanyahu a Bennett nasconde il desiderio del primo ministro di rinunciare ad almeno “60 mila coloni”, ovvero coloro che vivono fuori dai blocchi più facili da tenere nei negoziati con i palestinesi. Il team di Netanyahu sperava che la frase di Bennett sugli ordini militari da rifiutare indebolisse l’avversario. Tutt’altro. Appena due giorni dopo quell’uscita, il partito di Bennett toglieva al Likud altri due seggi. E visto che procede come un rullo compressore, Bennett insidia persino i laburisti, secondi con diciassette seggi. Figlio di ebrei statunitensi, Bennett è amatissimo dall’israeliano medio che vota a destra. E’ religioso, ma non è un rabbino. E’ nazionalista, ma parla a tutti. Conservatore nei temi sociali, piace molto per il suo passato di ufficiale della unità di élite dell’esercito, la Sayeret Matkal, “l’unità miracolosa” che ha sventato attacchi terroristici e sequestri di civili, e incaricata di eliminare arabi dietro le “linee nemiche”. Ma giova a Bennett anche l’essere simbolo della “start up nation”: neanche trentenne, Bennett ha fondato una security software company che ha poi venduto sei anni dopo per 145 milioni di dollari. Haaretz, giornale avverso all’agenda di Bennett, concede che “Bennett rappresenta quella onestà e integrità assente dalla politica israeliana dai tempi di Menachem Begin”. Bennett non vive in una sperduta colonia, ma a Ra’anana, epicentro della middle classe di Tel Aviv. Ricchissimo, a differenza di molti moderati in Israele è contrario ad arruolare i religiosi. Non usa mai toni estremisti o cinici contro i palestinesi, ma indica un cammino di “coesistenza” che non prevede alcuno stato palestinese, ma una lista di cose da fare per migliorare la vita pratica di tutti. Compresa la rimozione di numerosi checkpoint.
Sempre più l’esercito di Bennett
Ma l’ascesa di Bennett testimonia qualcos’altro, oltre a un carisma politico. E’ la metamorfosi dell’esercito israeliano. Un rapporto del centro studi dell’Idf ha stabilito che nel 2020 la “Giudea e la Samaria”, la Cisgiordania dove sorgono le colonie, saranno il primo bacino di arruolamento di soldati e ufficiali. Si cominciò a comprendere l’impatto di questo fenomeno nei giorni del ritiro da Gaza, quando una petizione per contestare l’evacuazione dei coloni venne firmata da diecimila tra soldati e riservisti. Anche se rappresentano una minoranza (seicentomila persone su sette milioni e mezzo), i coloni assumono un peso sempre più vitale nelle unità combattenti e quindi nella sicurezza di tutto il paese. Lo confermano i dati appena pubblicati: il sessanta per cento dei giovani nelle colonie si è offerto volontario in unità d’élite (nella zona di Tel Aviv, la percentuale è del 36 per cento). Scrive il Jerusalem Post che fra i paracadutisti “tutti i vicecomandanti sono ortodossi”. “Tsahal diventa un esercito di periferie”, ha scritto Yedioth Ahronoth, secondo cui il contributo maggiore giunge – oltre che dalle colonie – dalle periferie povere come Holon e Afula, dove Bennett raccoglie molti voti. Per mezzo secolo i giovani educati nei licei religiosi o appartenenti a famiglie ortodosse, come Bennett, hanno avuto un rapporto problematico con la divisa. Da un lato, il disprezzo paternalista dei socialisti. Dall’altro l’ostilità dei rabbini e delle famiglie pie, convinte che la leva militare facesse perdere la fede, dal momento che il settanta per cento delle reclute religiose diventava “laica”. Oggi non è più così: il cinquanta per cento dei religiosi diventano ufficiale; il settanta per cento serve in unità di élite; il venticinque per cento continua la carriera militare; l’un per cento soltanto abbandona la religione. E’ sempre meno l’esercito del kibbutz e sempre più degli ebrei dalla pelle scura e del sionismo religioso. Sei colonnelli su sette della brigata Golani sono nazionalisti religiosi, così come il quaranta per cento dei cadetti (negli anni Novanta erano il due per cento). “Le kippah prendono il controllo dell’esercito”, scrive Maariv. Nei buchi lasciati liberi dai rampolli dell’élite laica si trovano oggi soldati che sotto la divisa cachi indossano il manto di preghiera, il “tallit katan”, un memento permanente di chi fa della propria vita una testimonianza sacra. E’ l’Israele di Bennett con cui Netanyahu dovrà allearsi o fare i conti all’opposizione.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante