E' morta,a 103 anni, Rita Levi Montalcini, Premio Nobel 1986. Tutti i giornali ne ricordano oggi, 31/12/2012, la vita segnata da un grande coraggio, nell'affrontare la persecuzione antisemita in Italia e per le scoperte scientifiche di cui ha beneficiato l'intera umanità. Pubblichiamo l'articolo di Elena Loewenthal, sulla STAMPA, a pag.1/5, dal titolo "La grande fabbrica dei Nobel nella Torino del professor Levi".
Elena Loewenthal
Noi la ricordiamo per la sua partecipazione nelle manifestazioni italiane per la liberazione degli ebrei russi degli anni'80, i refuseniks. A guidarle era il Partito Radicale, allora solo, nel far conoscere le condizioni degli ebrei in Urss. Con Marco Pannella avevamo richiesto un incontro con l'Ambasciatore sovietico a Roma, che venne concesso anche perchè con noi c'era Rita Levi Montalcini, appena insignita del Premio Nobel. Poteva rifiutarsi di riceverla ?
Fu così che dicemmo all'Ambasciatore quanto il suo paese doveva vergognarsi nel trattare come schiavi, privi di diritti, gli ebrei sovietici che volevano lasciare il paese per emigrare in Israele. L'Ambasciatore ci ascoltò, intimorito dalla presenza di una donna piccola, minuta, ma dallo sguardo fermo e coraggioso. (ap)
Una delle ultime immagini di Rita Levi Montalcini, donna di valore
«Considerando in retrospettiva il mio lungo percorso, quello di coetanei e colleghi e delle giovani reclute che si sono affiancate a noi, credo di poter affermare che nella ricerca scientifica, né il grado di intelligenza né la capacità di eseguire e portare a termine con esattezza il compito intrapreso, siano i fattori essenziali per la riuscita e la soddisfazione personale.
Nell’una e nell’altra contano maggiormente la totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà». Quanto ha tenuto fede a queste parole, Rita Levi Montalcini, nella sua lunga, piena e tanto rimpianta vita. Chiudere gli occhi di fronte alle difficoltà e tenerli bene aperti sul mondo. Anzi, sui tanti mondi che lei ha visto. A incominciare da quello in cui nacque a Torino il 22 aprile del 1909 insieme alla sorella gemella Paola, sette anni dopo il fratello Gino, celebre scultore e architetto, e quattro dopo Anna, pittrice di fama. Una famiglia un po’ speciale, con una madre cui era legata da «immenso affetto», scrive nell’«Elogio dell’Imperfezione», e un padre dal quale ha «ereditato la serietà e l’impegno nel lavoro e una concezione laica, spinoziana della vita».
C’è qualcosa di struggente ma al tempo stesso vivido, intenso, nei ricordi d’infanzia che tratteggiano gli affetti familiari, i precoci scambi intellettuali, le scene cittadine di una Torino che si ritrova solo a volerla cercare più dentro di sé che nel paesaggio urbano di oggi.
Ma la Torino di Rita non è solo paesaggio d’infanzia. E’ anche e soprattutto quella di una straordinaria formazione universitaria e scientifica, a cominciare da quando nel 1930 si iscrive alla facoltà di medicina. Una scelta che desta qualche perplessità in suo padre, ma nella quale Rita è determinata. Lo è da quando Giovanna, l’amata governante quarantenne, se n’è andata per colpa di un brutto tumore allo stomaco. E’ così che nell’autunno di quell’anno lei mette piede per la prima volta nel «lugubre e solenne anfiteatro dell’istituto anatomico». A ravvivarne i colori c’era il mitico professor Giuseppe Levi, padre di Alberto – medico dalla straordinaria umanità ed esorbitante numero di sigarette al giorno – e Natalia Levi Ginzburg. Lo chiamavano Pomodoro, confidenzialmente LeviPom, il professor Levi, per via dei capelli rossi e delle «sopracciglia folte che nascondevano quasi completamente gli occhi», scrive Rita. «Soleva commentare a pranzo le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti». Uno stupido era, per lui, «un esempio», racconta invece Natalia all’inizio di «Lessico famigliare». Sarà anche merito di quel suo caratteraccio se il professor Levi può vantare un record unico, e purtroppo ignaro: quello di essere stato il maestro di ben tre premi Nobel. Dulbecco, Luria e Levi Montalcini, formatisi tutti e tre con lui e il suo modo di fare istologia.
Nella sua unicità, Giuseppe Levi era in fondo il rappresentante di un piccolo grande mondo: la Torino che coniugava mirabilmente attività intellettuale e scientifica, esperimenti di laboratorio e letture condivise. Quel mondo lì, ebraico e non, l’ha spazzato via il fascismo. Ma non solo il fascismo bieco e spietato che costrinse Rita a una serie di peripezie, migrazioni e clandestinità. Anche il fascismo qualunquista e apparentemente meno dannoso, ma certo più tenace e non di rado ancora riconoscibile nel nostro presente.
A due anni dalla laurea, con il massimo dei voti, arrivano le leggi razziali: Rita si rifugia in Belgio, dove avvia i suoi studi sulle cellule nervose. Nel 1940 i tedeschi arrivano nei Paesi Bassi, lei torna a Torino e allestisce il suo primo (ma non ultimo) laboratorio domestico, di fortuna. In quel laboratorio, con un unico assistente, ma di eccezione (nientemeno che il professor Levi!), lei scopre quel meccanismo di morte programmata delle cellule nervose che solo molti anni più tardi riceverà il nome di apoptosi.
Appena finita la guerra prova a fare il medico, ma si rende conto di non riuscire ad avere il distacco emotivo necessario per affrontare la sofferenza altrui, e così torna al microscopio, ma dall’altra parte dell’Oceano, in quell’America che a cavallo di quegli anni fu approdo di salvezza, rifugio, ricerca di una serenità perduta per sempre, in Europa. E così se n’è andata lei, se ne sono andati Renato Dulbecco e Salvador Luria, i tre brillanti allievi del professor Giuseppe Levi. Con le leggi razziali l’Italia aveva ripudiato nel 1938 due di loro, più il professore. Erano ebrei integrati, pacati nel loro pacifico, così moderno attaccamento alle tradizioni – che Rita racconta con lucidità e un pizzico appena di nostalgia –, partecipi di un mondo tanto piccolo – com’era la Torino di allora – quanto ricco di stimoli, di sfide morali e intellettuali. Ci manca quel mondo, ci mancherà tanto lei.
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