Due anni dopo il diluvio
Analisi di Mordechai Kedar
( Traduzione dall'ebraico di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz)
Due anni sono trascorsi da quando un terremoto ha costretto diversi leader arabi a combattere contro la dura realtà che essi stessi, per gran parte, avevano contribuito a creare. Decine di anni di dittatura, negligenza criminale, corruzione politica, clientelismo e nepotismo, hanno trasformato il mondo arabo in una polveriera ad alto rischio di esplosione. I media satellitari arabi, in particolare Al Jazeera, il canale della jihad dei Fratelli Musulmani, hanno impregnato l’area con esalazioni di gas a elevato numero di ottani, diffondendo una propaganda sfrenata contro i dittatori arabi, definiti “i padroni del 99 per cento sotto zero”, a partire da Mubaraq, Assad, Gheddafi e Saddam Hussein.
Questo canale ha funzionato come un tedoforo che portava la fiaccola accesa da uno stadio all’altro, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia allo Yemen, dal Bahrain alla Siria, mentre i suoi portavoce, guidati dall’emiro del Katar, chiedevano: “Chi vuol essere il prossimo?”. Le masse, videodipendenti da questo canale fin dalla fine del 1996, fecero quel che ci si aspettava da loro da parte dei leader politici capeggiati dall’Emiro del Katar, Hamed bin Khalifa al-Thani, che ha costruito per sé un potere enorme con questo canale satellitare deliberatamente aggressivo, che controlla masse affamate, trascurate, oppresse e ridotte in miseria.
Scopo di questo articolo non è fare una dettagliata rassegna degli ultimi due anni in ciascuno dei paesi coinvolti in questo sommovimento, ma quello di analizzare come andrà a finire.
Tunisia-Il primo sparo
Nel dicembre del 2010, nella cittadina di Sidi Bou Said, un giovane disoccupato di nome Muhammad bou Azizi si era dato fuoco, fiamme che fecero esplodere la polveriera araba. Le dimostrazioni spinsero il Presidente Zine al-Abadine bin-Ali a fuggire dal paese, non prima però di aver rubato con sua moglie una tonnellata e mezzo di oro dalla Banca Centrale. Nelle elezioni che si tennero nel 2011, il Partito Islamico, fino ad allora proibito, risultò al primo posto. Tuttavia, dal momento che non aveva avuto la maggioranza dei seggi in Parlamento, ha dovuto formare una coalizione con un partito laico guidato da Munsaf al-Marzuki, un intellettuale progressista, che aveva combattuto per anni per i diritti umani in Tunisia e che fino al 2011 aveva vissuto in esilio per le sue critiche al Presidente bin Ali. Il leader della corrente islamica, Rashid al-Ganoushi, offrì la Presidenza del paese al laico al-Marzuki, cosa che rese più accettabile ai settori laici della società la legittimità del nuovo regime, anche di fronte ad un partito islamico predominante. Da questo punto di vista, il cambiamento in Tunisia si è rivelato una fonte d’ispirazione, soprattutto alla luce del fatto che è stato il primo esperimento di un sistema politico democratico creato dopo lunghi anni di governi autocratici, guidati dai Presidenti Bourghiba e bin Ali. Le speranze dei tunisini erano quindi alle stelle.
Ma la relativa stabilità a livello politico non aveva portato alcun significativo miglioramento nella vita della popolazione, soprattutto a livello economico. Per molteplici ragioni: il sistema di corruzione al governo, in gran parte rimasto lo stesso dai tempi di ben Ali e che continua a comportarsi secondo la prassi “Un amico porta un amico”; le infrastrutture, ancora nelle stesse condizioni di miseria; gli investitori, che non sono intervenuti con opportune iniziative per creare in Tunisia risorse di benessere; e la crisi economica europea che impedisce una crescita significativa della produzione. Il cittadino tunisino ora capisce che le sue speranze politiche non si sono tradotte in un miglioramento effettivo della situazione economica.
Un altro problema rimasto immutato è la stratificazione sociale della Tunisia. La popolazione tunisina è divisa tra un’élite urbana e gli strati che vivono ai margini, in sobborghi agricoli e nel deserto, la maggior parte in un contesto ancora tribale. La città è molto più aperta, laica e liberale rispetto alle periferie, che rimangono chiuse, legate alla religione e alle tradizioni. Il problema etnico ha un riflesso negativo sull’unità nazionale, poiché oltre agli arabi, ci sono anche berberi e africani, che non godono degli stessi diritti. Questa situazione continua indipendentemente dal regime, e la destituzione di ben-Ali non ha minimamente influito su un cambiamento della stratificazione sociale.
In seguito alle difficoltà economiche, negli ultimi mesi la Tunisia ha assistito a una serie di manifestazioni di protesta contro il regime, soprattutto nelle periferie. Si è arrivati al punto che, quando la settimana scorsa il Presidente al-Marzuki è giunto nella cittadina di Sidi Bou Said (da cui era partita la prima scintilla delle sommosse del mondo arabo), per partecipare alla cerimonia in ricordo di Muhammad Bou Azizi, è stato costretto a ritirarsi dopo essere stato preso a sassate, e per le urla e gli insulti dei manifestanti. Voleva la democrazia e se l’è trovata sbattuta in faccia, ma anche il popolo voleva la democrazia, e ora ha capito che non è una zecca che stampa soldi su ordinazione.
Non si prevede un futuro facile per la Tunisia: la crisi economica mondiale in generale e quella europea in particolare, non migliorerà in breve tempo; neppure l’amministrazione muterà la radicata abitudine alla corruzione, e la stratificazione sociale continuerà a influire negativamente su eventuali opportunità per il paese, soprattutto per i giovani che vivono ai margini della società e delle possibilità economiche. Il risentimento che deriva da queste crepe influenza negativamente la stabilità sociale, e la mancanza di stabilità potrebbe pesare sugli investimenti, e di conseguenza sull’economia.
Per le masse di tunisini che sostengono il movimento islamico, ora è chiaro che non possiedono la bacchetta magica per risolvere i problemi del paese, come è chiaro che lo slogan”L’Islam è la soluzione”, la parola d’ordine del partito, non è la soluzione.
Egitto-Un complicato groviglio
Il 25 gennaio prossimo saranno passati due anni dall’inizio della rivolta. Numerosi sono i cambiamenti dopo la rivoluzione: Mubarak, il dittatore corrotto, è il maggiore imputato; alcuni capi del suo governo sono in carcere, altri sono stati rimossi; i Fratelli Musulmani hanno conquistato l’ufficio di Presidenza e metà dei seggi in Parlamento; l’esercito “è stato messo in riga” da un presidente islamico; e persino il Presidente degli USA ha accolto il regime dei Fratelli Musulmani come un fatto compiuto.
Tuttavia la situazione in Egitto è complicata e complessa su vari livelli: la gioventù della post- rivoluzione, i liberali, i laici, l’intellighentzia e i disoccupati, che con i loro corpi avevano rimosso Mubarak e pagato con il sangue le rivolte, hanno scoperto che la rivoluzione gli è stata rubata. Neppure negli incubi peggiori avevano previsto che la rivoluzione civile sarebbe diventata una rivoluzione islamica. Le donne in camicette casual e jeans, che avevano dimostrato due anni fa in Piazza Tahrir (“liberazione”) non si aspettavano che grazie alla rivoluzione, i rappresentanti del partito salafita, quelli che credono che “il miglior hijab per una donna è la sua casa”, avrebbero ottenuto un quarto dei seggi in Parlamento.
Ma le delusioni politiche, per grandi che siano, sono molto meno sconfortanti di quelle economiche. Anche in Egitto, la maggior parte dell’amministrazione del regime precedente è rimasta al suo posto, con strati di disoccupazione nascosta, impiegati in eccedenza, burocrazia ingombrante, nepotismo. Le possibilità di portare il Paese a un livello di sviluppo e prosperità non sono superiori di quelle dei tempi di Mubarak.
Il turismo, che, ai tempi di Mubarak garantiva il sostentamento a milioni di egiziani, è scomparso e con esso è scomparsa anche questa importante fonte di sostentamento per molti egiziani, che oggi vivono al di sotto della linea di povertà, in Egitto già molto bassa. Negli ultimi due anni gli investitori stranieri hanno sono quasi scomparsi, per l’instabile sicurezza e perché non è chiaro se ricaveranno mai qualche profitto dal loro investimento. La mancanza d’investimenti ha una influenza negativa sulla creazione di nuove fonti di occupazione per le masse di egiziani che entrano ogni anno nella forza lavoro, per fondare una famiglia e sostenerla. I molti laureati disoccupati affrontano una realtà molto difficile, in una situazione sociale esplosiva: aumenta l’età media dei matrimoni che ha già superato la soglia dei 30 anni, formare una famiglia è diventato un traguardo economico impossibile per la maggior parte dei giovani, quanto basta perché scendano in piazza per protestare contro i simboli del regime, dello stato e contro le forze di polizia.
La Costituzione, che è stata votata in questi giorni, concede al Presidente molte autorità a scapito di altre istituzioni, in particolare del Parlamento, si sente l’instaurazione di una dittatura. Molti - anche tra i settori religiosi della società – si chiedono se questo è ciò per cui i Fratelli Musulmani sono arrivati al potere. L’attività del Parlamento, eletto circa un anno fa, è stata congelata da un decreto del tribunale, e non sembra che il Presidente sia pronto a ripristinarne le funzioni. Non vuole essere chiamato a rispondere a domande imbarazzanti che in Parlamento potrebbero essergli sottoposte, pur avendone facoltà, perché fu scelto con elezioni democratiche. Inoltre non è interessato a un Parlamento che approvi leggi di bilancio non in linea con quanto decide, un Presidente con un chiaro programma culturale, sociale e politico e un Parlamento diviso al suo interno tra varie tendenze contraddittorie, non è certamente una ricetta valida per la stabilità politica, ma piuttosto un vicolo cieco, con due parti contrapposte, bloccate in una lotta dove ogni parte infila il coltello nella schiena dell’altra.
Due anni dopo lo sconvolgimento, l’ Egitto sembra un carro traballante trainato da diversi cavalli, minacciosi e potenti e a tutta velocità, ma in direzioni diverse: il Presidente, il comitato costituzionale, i membri del Parlamento, i militari, il governo che è sempre provvisorio, il campo laico, quello religioso, i salafiti e i sostenitori di Mubarak.
Le previsioni per il futuro non sono rosee, perché il nodo costituzionale-governativo ha una pessima influenza in primo luogo sull’economia che sta crollando, e la lotta per l’immagine culturale dell’Egitto cade troppo spesso nella violenza che provoca altra violenza da parte della polizia, solleva la rabbia della gente a livelli che ricordano la rivolte contro Mubarak. Col senno di poi si può presumere che tra i Fratelli Musulmani ci potranno essere coloro che riterranno un errore trovarsi oggi alla guida del traballante carro egiziano, perché non vi è alcuna possibilità di raggiungere un obiettivo positivo. Nonostante abbiano ereditato una situazione molto difficile da Mubarak e Tantawi – saranno loro ad essere identificati con il fallimento.
Siria – Il massacro futuro
Dal marzo 2011, gli osservatori hanno la sensazione che il crollo di Assad sia vicino, e con il suo collasso lo Stato sarà suddiviso in unità omogenee: curdi nel nord-est del paese, alawiti nella parte ovest, drusi nel sud, beduini in Oriente, Damasceni nel centro e gli abitanti di Aleppo nel nord. L’idea che possa formarsi un’unità alawita autonoma deriva dal fatto cui il regime sta facendo affluire armi pesanti, munizioni ed equipaggiamento pesante nella zona delle montagne di Ansariyya, nella parte occidentale del paese, la zona abitata degli alawiti, in modo che potranno essere in grado di difendere se stessi e gli abitanti della montagna dagli attacchi dei musulmani.
Nei giorni scorsi, ha cominciato a circolare l’informazione che le unità appartenenti all’Esercito Libero Siriano stanno attaccando le montagne di Ansariyya, e che decine di villaggi alawiti sono stati abbandonati per paura dei musulmani, pieni di odio per gli alawiti. Questo perché i musulmani hanno un forte desiderio di vendicare su di loro le stragi che il regime ha effettuato contro i cittadini della Siria negli ultimi due anni, e anche in periodi precedenti, come tra il 1976 e il 1982, quando si sono formati i Fratelli Musulmani, che si concluse con la strage di migliaia di uomini, donne e bambini nella città di Hama nel febbraio del 1982.
Se queste informazioni sono corrette, e l’opposizione di Assad sta prendendo effettivamente il controllo di Ansariyya, questo potrebbe comportare la fine fisica degli alawiti insieme al sogno di mantenere l’indipendenza. Il sangue che sarà versato quando i musulmani li massacreranno, sarà molto più di quanto versato fino ad oggi, e non è chiaro quanto il mondo si sentirà in dovere di aiutarli quando arriverà il momento critico.
Quale futuro avrà la Siria? . Sembra che stia affondando in una palude di sangue, fuoco e lacrime, travolta da migliaia di milizie, alcune delle quali seguono la linea politico-religiosa identica a quella di Bin Laden e al-Qaeda. Questo sviluppo può essere molto problematico per Israele, perché vicini come questi non promettono nulla di buono, e se le armi pesanti o di distruzione di massa cadessero nelle loro mani, Israele potrebbe trovarsi nel prossimo futuro a dover far fronte a minacce estremamente gravi.
Libia – Guerre Tribali
In questo paese, afflitto da tribalismo, una coalizione di tribù con un grande sostegno della NATO è riuscita a rimuovere Gheddafi, ma da più di un anno la Libia è diventata un’arena per i combattimenti tra le varie tribù, spinte da interessi economici e di potere, per il possesso del territorio. I quartieri generali tribali a est ,Cirenaica, stanno combattendo contro le tribù dell’Ovest ,Tripolitania, e le tribù del sud sono nemiche di tutti gli altri.
La società libica è divisa anche su base etnica, per la scissione arabo-berbera che ha anche implicazioni economiche e di governo. La previsione è che, fin tanto che la Libia continuerà ad essere uno stato unico, continuerà ad essere al centro di guerre tribali, in particolare per quelle che vivono nel Sahara, che per centinaia di anni hanno sviluppato una forte e pericolosa “atsabiyya” (rivalità tribali), soprattutto nei confronti dell’ “altro” (chiunque sia diverso).
Il fatto che le armi provengano dal deserto libico, significa che la violenza inerente alla cultura della regione, sta trasformando l’intero paese in una guerra senza fine.
L'ipocrisia al suo massimo
Lo sconvolgimento nel mondo arabo è il risultato di una situazione terribile creata dagli stessi regimi, in un’atmosfera di forti ostilità verso i governi, innescata dal canale Al Jazeera. Nel corso degli ultimi due anni, l’emirato del Qatar è stato, ed è tuttora, coinvolto nel finanziamento del caos e nel sostegno verso Libia e Siria; il canale Al Jazeera, l’agente operativo, accende la miccia nei paesi arabi, dietro la richiesta di democrazia, diritti umani e libertà di espressione.
Ma lo stesso Qatar non governa secondo gli standard diffusi di Al Jazeera quando si tratta di democrazia: all’inizio di questo dicembre, il tribunale del Qatar ha condannato all’ergastolo un poeta di 36 anni, di nome Muhammad ben al-Dhiab al-Ajami perché mentre aveva lodato le rivoluzioni nel mondo arabo, aveva anche criticato l’emiro del Qatar. Al-Ajami era andato ben oltre: aveva chiesto la rivoluzione in Qatar, pur sapendo che la punizione era la morte.
Se l’emiro del Qatar non perdonerà al-Ajami, sarà oggetto di aspre critiche da parte del mondo arabo, ma non le ascolterà e continuerà ad incoraggiare i Fratelli Musulmani a prendere il controllo del potere nel resto dei paesi della regione, mentre nel Qatar improgiona chi reclama il diritto di parlare.
Il quadro generale
A due anni dall’inizio della rivolta nel mondo arabo, il quadro generale non induce all' ottimismo. I leader di molti paesi si trovano ancora su un terreno pericolante, l’onda potrebbe raggiungere anche loro.
Israele appare ancora come un’isola di stabilità e buon senso in un mare turbolento e tempestoso, dove barche traballanti sono in procinto di affondare con i loro passeggeri.
Possa Allah salvare i popoli arabi.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link: http://eightstatesolution.com/
http://mordechaikedar.com/